La figura del brigante, indomito e tragico eroe "negativo" della storia calabrese, ha acquisito una sua riconosciuta dignità letteraria soprattutto nella letteratura regionale del XIX secolo. Si pensi agli esempi, notissimi, del Brigante di Biagio Miraglia, di Antonello capobrigante calabrese di Vincenzo Padula o del Giosafatte Tallarico di Nicola Misasi, del quale non è superfluo ricordare il suo ripetuto attingere alla fonte d'ispirazione del brigantaggio, com'è testimoniato, tra l'altro, anche dal romanzo Briganteide. Siamo dalle parti, in questi autori, di un "romanticismo naturale" che del brigante sottolinea la marginalità della collocazione sociale, l'irruenza delle passioni, il ribellismo violento e "primitivo". Così il brigante diventa una figura dai tratti quasi stereotipi, connotata antropologicamente dallo stigma indelebile della "calabresità" e contrassegnata, come ha ben evidenziato Pasquale Tuscano, dai caratteri dell'astuzia, del coraggio, della ferocia, della rozza cultura, inevitabile conseguenza del suo appartenere non alla "civiltà", ma alla natura.
In qualche modo epigono di questa tradizione, pur senza l'assunzione di un'ideologia di tipo romantico, si può considerare Sharo Gambino (1925 - 2008), di cui l'editore Rubbettino ha di recente ristampato, nella prestigiosa collana "La nave dei pini" e con un'introduzione di Enzo Ciconte, il romanzo Vizzarro, pubblicato in edizione originale nel 1981 da Frama Sud. Al Vizzarro di Gambino certamente non mancano quei caratteri antropologici che lo accomunano alle altre figure consimili già apparse sulla scena letteraria calabrese, ma, altrettanto sicuramente, la corposa presenza della storia, che intesse con la sua trama fitta le vicende di cui è protagonista, conferisce al romanzo una diversa aura. Romanzo storico Vizzarro lo è senz'altro perché gli avvenimenti "privati" della vita di Francesco Moscato ( questi il nome e il cognome del brigante di Vazzano) vedono la storia come sfondo e scenario e, nel medesimo tempo, come "forza" che attraversa quegli avvenimenti, contribuisce a determinarli, li indirizza verso i loro esiti terminali. Il decennio francese in Calabria, l'occupazione bonapartista dell'Italia meridionale a partire dal 1806, costituisce il pulsante cuore storico del romanzo, che Vizzarro percorre lasciandosi alle spalle una scia di efferatezze degne di narrazioni esplicitamente pulp. Il racconto comincia frugando tra le pieghe di una storia di famiglia, quella dei fratelli Antonio, Cataldo e Felicia De Santis, baroni di Vazzano, nella quale, per non disperdere l'eredità paterna e materna, la parte maschile impedisce alla sorella di disporre della sua vita, costringendola a uno sgradito nubilato e ponendola in una condizione molto simile a quella delle monache di casa. Ben presto la vicenda di Felicia si intreccia con quella di Francesco Moscato, all'inizio bravo al soldo dei fratelli De Santis, scherano a protezione dei loro beni e della loro incolumità, diventato suo amante segreto. Questo amore negato è la molla che innesca il meccanismo narrativo, sviluppato sul duplice piano della guerra privata scatenata dal Vizzarro contro i fratelli di Felicia - che la segregano in casa E lo fanno incarcerare - e delle avventure di rapina delle sue bande brigantesche. Inevitabilmente, una volta fuori dalla prigione, Vizzarro, come tanti altri fuorbanditi, si trova a combattere dalla parte del Borbone contro i francesi usurpatori. La ribellione "borbonica" e "sanfedista" di Vizzarro decolla, così, verso i suoi esiti sanguinario Vizzarro compie saccheggi, stragi, incendia paesi, viene ricacciato insieme alla altre bande e ai regolari anglo-borbonici in Sicilia, ritorna in Calabria nel tentativo di farsi riconoscere capo dalle masse delle due Calabrie. Nella sua mentalità pre-politica il violento contrasto ai francesi prescinde da quanto essi stavano realizzando, non scaturisce da un compiuto giudizio sulla loro azione: «Lui sapeva solo che la sacra persona di re Ferdinando IV, legittimo sovrano, - scrive Gambino - era stata costretta con la forza delle armi, senza averla provocata, ad abbandonare la capitale del suo regno e sul trono era subentrato uno straniero ateo, privo di sangue reale nelle vene[ ... ]. E poi, re Ferdinando parlava napoletano e i napoleonidi francese. Il primo egli lo capiva, i secondi no, quindi gli restava simpatico quello e odiosi questi».
Era anche un fatto di interesse personale, legato alla prospettiva di ricevere onori e benefici, qualora Ferdinando fosse ritornato a Napoli: «Sterminio di francesi, dunque e morte ai loro sostenitori locali, frammassoni, giacobini, galantuomini e intellettuali». La storia precipita verso il suo funesto epilogo. Dopo l'uccisione dei due fratelli De Santis, Vizzarro si rifugia nei boschi con Felicia e involontariamente, per non farsi
individuare durante un tentativo di catturarlo, uccide per soffocamento la figlioletta che piangeva. È costretto a scappare ancora, ad abbandonare i luoghi che erano stati teatro delle sue scorribande. Infine, lega a sé, con bruta violenza, un'altra donna – Nicolina Licciardi - e per mano di questa viene ucciso: "Il cadavere di Francesco Moscato - conclude Gambino – condotto alle forche di Monteleone a cavalcioni di un asino, diviso in pezzi, fu compartito tra i paesi che da lui avevano avuto danno od oltraggio». Terribile memento, tragica reliquia, di una guerra combattuta e persa.
Tonino Ceravolo
(articolo pubblicato su Il Quotidiano della Calabria)