VIBO VALENTIA - Non c'è niente da fare: il sangue, da queste parti, si lava solo con altro sangue. Benché già oggi sia possibile individuare vincitori e vinti, la faida che negli ultimi due anni ha insanguinato il Vibonese non è certo un affare chiuso. Gli arresti, le retate, i tanti morti ammazzati, hanno generato una tregua forzosa, ma è fin troppo facile prevedere che, anche se dovessero passare anni, si tornerà a sparare. I conti tra “famiglie” continueranno a essere regolati a suon di pallottole, e di conti aperti, nella periferia della Calabria, ce ne sono ancora tanti. Troppi. Ne sono convinti gli inquirenti che lavorano senza sosta per decifrare le dinamiche interne ed esterne alle cosche che controllano il territorio.
La feroce guerra di 'ndrangheta scoppiata con l'omicidio del 61enne Fortunato Patania, boss di Stefanaconi – piccolo centro alle porte di Vibo – ucciso l'11 settembre 2011, molto legato ai Mancuso, sembra essersi fermata dopo l'omicidio più eclatante, quello di Davide Fortuna, presunto affiliato alla “società” emergente di Piscopio che, dicono le indagini, voleva sottrarsi al dominio del potente clan di Limbadi e gestire autonomamente gli affari illeciti nella zona. Fortuna, 31 anni, fu assassinato in spiaggia, a Vibo Marina, in pieno giorno, il 6 luglio 2012, mentre era con moglie e figli. Molti dei presunti responsabili, tra mandanti ed esecutori materiali, sono stati arrestati, e ora c'è anche uno dei killer – il 31enne Vasvi Beluli, detto “Jimmy il macedone” – che ha confessato e sta collaborando con la giustizia. Dall'operazione “Gringia” è inioltre emerso come i Mancuso abbiano garantito appoggio ai Patania con l'obiettivo di vedere annichiliti i “piscopisani”. Sarebbero stati i boss di Limbadi e Nicotera a fornire il supporto logistico per gli omicidi, spesso commessi utilizzando killer venuti da fuori regione e con l'ausilio di tecnologie all'avanguardia.
I “FERRI” ARRIVANO DA NORD
Il lavoro della magistratura e delle forze dell'ordine ha prodotto decine di arresti, tra cui alcuni eccellenti, come quello di Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, ritenuto il vero regista occulto della faida. Dall'altra parte, alcuni dei “sopravvissuti” del gruppo di Piscopio sono finiti in carcere – è il caso di Raffaele Moscato, 31 anni, e di Rosario Battaglia, 28 –, ma una grossa crepa nel muro di calma apparente che queste operazioni avevano generato si è aperta lo scorso 15 luglio, giorno dell'arresto dei fratelli Angelo e Nazzareno Stambè, 36 e 43 anni, braccianti agricoli di Sant'Angelo di Gerocarne. I due viaggiavano a bordo di un Fiat Ducato sull'autostrada Torino-Piacenza quando, nei pressi dello svincolo di Asti est, sono stati fermati dai carabinieri del Norm che, dopo un'accurata perquisizione, hanno scoperto un doppio fondo ricavato sotto i sedili posteriori del furgone. Contenuto: 20 fucili (doppiette, armi da caccia e carabine di precisione) e 13 pistole (revolver di grosso calibro e semiautomatiche), più 400 proiettili. Entrambi i fratelli arrestati hanno precedenti penali alle spalle e Angelo, in particolare, era già stato accusato per reati analoghi – assieme a un altro fratello, Giuseppe, 54 anni – nel marzo 2011 quando, in una zona di campagna di Gerocarne attigua a un terreno di loro proprietà, i carabinieri della Compagnia di Serra San Bruno trovarono 12 fucili interrati all'interno di tubi di plastica. I due furono però ben presto scarcerati dal Tribunale della libertà.
I vertici dell'Arma di Asti, in merito all'arresto dei fratelli Stambè, hanno parlato di «storico risultato operativo» poiché «di fatto non si erano mai verificati sequestri così ingenti di armi in questa provincia ed in quelle vicine», e hanno anche aggiunto che quell'arsenale, composto da “ferri” rubati nelle zone di Piacenza e Pavia, con ogni probabilità era diretto al mercato criminale calabrese.
GLI ARMIERI DEI PATANIA
Il 21 settembre 2012 i carabinieri del Comando provinciale di Vibo eseguono sette ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di altrettante persone, accusate di essere gli armieri della cosca Patania. Tra loro c'è una famiglia quasi al completo: Antonio (55 anni), Cosimo Francesco (24) e Damiano Caglioti (23), di Gerocarne. Ci sono anche due donne, che vanno subito ai domiciliari: Caterina Caglioti (30), moglie di Nazzareno Patania – un altro degli arrestati, figlio di Fortunato –, e Alessia Cirillo (20) di Acquaro, fidanzata di Damiano. Antonio (il padre) e Cosimo Francesco erano già finiti in manette nel gennaio 2012, Damiano a maggio. Diverse perquisizioni avevano svelato che la famiglia custodiva, oltre alle armi, anche materiale – contrassegni, distintivi, lampeggianti – in uso alle forze di polizia. Quelle armi servivano per compiere delitti di 'ndrangheta – gli investigatori ne sono certi –, erano destinate alla guerra contro i “piscopisani” che i Patania stavano conducendo per vendicare l'omicidio del capofamiglia.
LO “SCALO” DI SANT'ANGELO
La Provincia di Vibo conta circa 166mila abitanti. Gerocarne in totale ne fa poco più di 2000, ma Sant'Angelo è sempre stato un villaggio a sé. Zone all'apparenza tranquille, piccoli agglomerati di case immersi nelle verdeggianti colline attraversate dai torrenti Mesima e Marepotamo, ampi spazi destinati all'agricoltura e alla pastorizia, in un territorio che si trova esattamente a metà strada tra la città capoluogo e l'entroterra montano. A Sant'Angelo, però, il paesaggio agreste non sempre custodisce, come sembrerebbe, suggestioni bucoliche.
In contrada Rombolà, per esempio, nell'abitazione della nonna paterna, i Caglioti nascondevano alcune delle armi che per gli inquirenti erano destinate alla faida. E nella stessa località ci sono le proprietà degli Stambè, vicino alle quali i carabinieri di Soriano e Serra scoprirono i fucili nascosti nei tubi di plastica, per i quali due dei fratelli vennero arrestati e poi scarcerati.
Tra gli Stambè e i Caglioti, tra l'altro, non corre buon sangue. I dissapori tra le due famiglie emergono chiaramente dall'ordinanza che ha portato all'arresto degli “armieri dei Patania”. Dalle conversazioni intercettate, i magistrati deducono che gli indagati fossero convinti «dell'esistenza di possibili delatori». Cosimo Caglioti era stato arrestato da pochi giorni, e il fratello, nel colloquio ascoltato dagli inquirenti, dice: «Eh! Il nome tuo chi l'ha fatto? Pure lui, loro, i Rizzi...». E i “Rizzi”, secondo quanto riportato nell'ordinanza vergata dal gip di Vibo, sarebbero proprio gli Stambè.
Ora, se da una parte le indagini hanno rivelato che i Caglioti erano strettamente legati ai Patania, resta il rebus dell'arsenale su cui erano seduti – letteralmente – Angelo e Nazzareno Stambè. Le ipotesi che gli inquirenti stanno vagliando sono diverse e puntano in più direzioni, anche perché pare che i “Rizzi” negli anni si siano specializzati nel commercio di armi. La cautela è dunque d'obbligo, ma una pista, al momento, sembra più credibile rispetto alle altre: l'arsenale poteva essere diretto a Piscopio, dove abita uno dei fratelli, e potrebbe essere stato destinato a una progressiva – certamente non facile – riorganizzazione della “società” emergente, che con il tacito appoggio di alcuni boss di spessore del “mandamento jonico” stava minando il potere dei Mancuso, uno dei clan più potenti della “linea tirrenica”.
Come detto si tratta, per il momento, solo di ipotesi investigative, ma resta il fatto che le armi della faida che ha insanguinato il Vibonese passavano dallo “scalo” cruciale di Sant'Angelo, un fazzoletto di terra che, a dispetto delle apparenze, costituisce un vero e proprio crocevia per l'approvvigionamento della “materia prima” di cui le 'ndrine in guerra, purtroppo, fanno largo uso.
(articolo pubblicato sul numero 110 del 'Corriere della Calabria')