Sabato, 11 Aprile 2020 14:18

Una reliquia dal passato. La "cumprunta" del Vecchio Abitato di Nardodipace

Scritto da Antonio Cavallaro
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«Pareva che avesse incominciato a piovere per scherzo. Poi, piano piano, l’acqua ci prese gusto e cominciò a rovesciarsi sempre più abbondante. L’Allaro, il fiume che vedete laggiù e che è stato sempre il più crudele nemico del nostro paese, prese anch’esso a gonfiarsi e tutt’a un tratto si trascinò il ponte che ci legava alla frazione Ragonà. Si cominciò a trepidare: non solo per la nostra vita, ma anche per quella dei fratelli dell’altra riva. Ci aspettavamo il peggio da un momento all’altro, ché l’acqua si rovesciava a cascate, incessantemente. E non fummo cattivi presaghi. Per fortuna era capitato quassù, mandato dalla Divina Provvidenza, il maresciallo Martorelli, allora brigadiere, il quale impose a tutti di abbandonare le abitazioni e guidò la colonna fin lassù, alle case popolari. Descrivervi la scena non m’è facile: sotto l'imperversare della pioggia si pregava Dio piangendo e urlando: si chiamava il nome dei morti perché ci venissero in aiuto. Vidi dei bambini terrorizzati aggrapparsi disperatamente alla mamma, uomini già maturi col pallore della morte sul volto. Una scena d’Apocalisse! Eravamo già al sicuro quando, improvvisamente, un boato ci agghiacciò l’anima. Udimo degli scricchiolii… poi più nulla. Intuimmo che la frana che sempre avevamo temuto si era mossa e che Nardo di Pace aveva cessato di esistere».

Questo il racconto del disastro che ferì a morte la vecchia Nardodipace durante l’alluvione dell’autunno del 1951 che Sharo Gambino mette in bocca, sul «Corriere calabrese» del 16 novembre di quell’annus horribilis, al parroco di allora. «Mi son fatto raccontare dall’arciprete di Nardo di Pace, il giovane don Cosimo Fazio, ‒ annota Gambino ‒il dramma di quei giorni e ve lo ripeto così come l’ho stenografato nel mio taccuino, senza aggiungervi una virgola».

In realtà chi conosce l’opera dello scrittore serrese non avrà certo fatto fatica a intravedere la sua penna nel virgolettato di don Fazio il quale difficilmente sarebbe riuscito a dare altrettanto colore a questa scena quasi biblica.

Ma al di là di come andarono veramente le cose, quello che è certo è che quell’autunno del 1951 rappresentò per molti paesi di Calabria (tra cui Africo e Badolato) uno spartiacque e per Nardodipace lo fu in maniera drammaticamente singolare. Dopo quell’alluvione, quel borgo che era nato per dare sollievo a un gruppo di fabriziesi in fuga dallo sconquasso del terremoto del 1783, cominciò a spopolarsi drammaticamente. Non venne però immediatamente abbandonato, come si legge talvolta. L’attaccamento a quel colle incuneato nella valle dell’Allaro era talmente forte che passati i drammatici giorni dello sfollamento molti nardodipacesi ripresero a ripopolare le loro vecchie case, con gli usci aperti per metà che si affacciavano sulle rughe, non riconoscendosi in quella new town che il governo De Gasperi aveva costruito, molto più a monte, sul pianoro di Ciano a 1.100 metri d’altezza.

E, tuttavia, l’alluvione non fu una parentesi. Si creò un’emorragia che venne aggravata presto dalla ripresa dell’emigrazione oltreoceano e verso i paesi del nord Europa.

Ciononostante quel paese, anzi “lu pajisi”, come hanno sempre continuato a chiamarlo i nardodipacesi non si è mai arreso, non ha mai accettato di non essere più. Era nato da un disastro naturale e non accettava di morire per un altro disastro naturale.

Nei giorni a cavallo tra il 1972 e il 1973 una nuova pesante alluvione colpiva nuovamente l’abitato. Una nuova ferita. Un nuovo segno che indicava quanto le speranze di non abbandonare quel borgo che, pure molti continuavano a nutrire, fossero destinate a infrangersi contro l’ineluttabilità del destino. Era chiaro a tutti che quella di riparare le case di pietra e creta era una fatica di Sisifo.

Ancora negli anni ’80, la Nardodipace vecchia contava un numero relativamente alto di abitanti. Vi nascevano ancora bambini e, nella contrada Albani, era attivo un plesso della scuola elementare.

Terminati però i lavori di ricostruzione (la seconda!) avviati in seguito a quest’ultima alluvione, lavori che avevano dato una boccata d’ossigeno e di liquidità a molte famiglie, l’emigrazione riprese inesorabile. Anche Ciano, la nuova Nardodipace, vide le sue strade spopolarsi… il Vecchio Abitato iniziò la sua fase di declino finale.

Nardodipace, lu Pajisi, è oggi un paese fantasma, i cui abitanti si possono contare sulle dita delle mani, eppure non si è del tutto ancora arreso alla morte. Quella tenacia, quella capacità di resistere a tanti disastri non lo ha abbandonato. C’è un filo di memorie che ancora non è stato reciso del tutto e che, per questa ragione, bisogna tenere ancora teso, fosse anche parlandone, come mi propongo spesso di fare.

Il video che propongo ai lettori del “Vizzarro”, nei giorni di questa Pasqua così anomala è stato girato lo scorso anno con un cellulare e mi è stato mandato dall’amico Enzo Tassone. È un filamento di quel cordone non ancora reciso di cui dicevamo prima, un sussulto di quel corpo morente che non si vuole rassegnare a emanare l’ultimo respiro e che, grazie anche alla sensibilità di don Biagio Cutullè, parroco di Nardodipace, riesce a rimanere ancora in vita.

Ritrae un momento della cumprunta della domenica di Pasqua.

Il rito era stato codificato negli statuti della Confraternita del Sacro Cuore, sorta a Nardodipace nel 1819 (pochi decenni dopo la fondazione della parrocchia) e scomparsa proprio in quei drammatici anni ’50 del Novecento, e prevedeva che le consorelle avessero il privilegio di portare in processione la statua dell’Addolorata, lasciando ai confratelli quella del Cristo risorto. Lo schema è rimasto da sempre quello ed è simile a quello che si ripete in molte parti della Calabria. Le due statue si incontrano e la Madonna abbandona i segni del lutto per mostrare il vestito della festa.

La caratteristica del rito è la compostezza. Nessuna corsa a perdifiato, nessuna incredulità simulata da parte di Maria. Le due figure lasciano la stessa chiesa in due momenti diversi ma consecutivi con due distinte processioni. Ora che la confraternita non esiste più è rimasta l’abitudine ad avere due processioni divise: una di donne e una di uomini. L’incontro avviene nei pressi del Calvario: Il luogo della morte diventa il luogo in cui rinasce e si annuncia la vita.

La processione non ha nulla di spettacolare, non coinvolge maestosi gruppi scultorei, non mette a dura prova l’abilità dei portantini… ha una dimensione fortemente famigliare, quasi privata.

Ho impiegato un anno a decidere se scrivere questo pezzo e mostrarla. Avevo paura di violarne questa sua intima sacralità. Gli eventi legati al Coronavirus, alla soppressione dei riti della pietà popolare legati alla Pasqua mi hanno tuttavia convinto a proporla quale segno di speranza e di resistenza.

Buona Pasqua. Buona Vita. Buona Resurrezione.

Video

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