Domenica, 22 Agosto 2021 09:36

Sponz Fest e aree interne. Vito Teti torna alla kermesse ideata da Capossela - INTERVISTA

Scritto da Bruno Greco
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Momenti musicali, artistici ma soprattutto di riflessione. Lo Sponz Fest (ideato da Vinicio Capossela e giunto alla sua IX edizione) si fa ancora contenitore delle istanze territoriali occupandosi questa volta delle aree interne. “Sponz all’osso”, lontano dalla polpa rappresentata dal sistema urbano e dalla turistica costa, dove il vuoto non deve essere più inteso come abbandono bensì come spazio culturale da riempire. Dal 25 al 29 agosto il teatro sarà il suggestivo (e sintomatico) scenario dell’Alta Irpinia, che dell’osso ha conosciuto finanche il midollo. Tra gli ospiti non poteva mancare l’antropologo Vito Teti, da noi intervistato, chiamato da Capossela a prendere parte allo Sponz Fest per la quinta volta. 

In che cosa consiste il Manifesto delle aree interne che si propone quest'anno lo Sponz Fest?

«L’idea di cooperazione dello Sponz-Fest guarda a tanti studiosi, tra cui quelli del gruppo “Riabitare l’Italia” di Donzelli. L’obiettivo è cercare di riflettere sul tema delle aree interne dando indicazioni, formulando proposte e promuovendo progetti per rivitalizzare quei luoghi che rischiano di essere abbandonati. Lo Sponz è un festival diverso, sensibile alle esigenze territoriali. La sua bellezza consiste nel far conoscere i luoghi attraverso un clima di socialità e di festa, chiedendosi come quegli stessi luoghi possano divenire attrattivi per esempio anche nei mesi invernali. Il Manifesto, attraverso il contributo degli studiosi ma soprattutto con l’apporto dal basso, si prefigge l’obiettivo di riempire questi vuoti affinché non si traducano in abbandono».

Capossela stesso dice: «Non bisogna avere timore del vuoto perché è una risorsa, il vuoto accoglie e il pieno respinge...»

«Il vuoto paradossalmente diventa una risorsa. Uno spazio da riempire con cose nuove. Per questo semplice motivo “Riabitare l’Italia”, ad esempio, si occupa anche dei luoghi troppo pieni che vanno reinterpretati, creando il giusto collegamento con le aree interne e le periferie». 

Con il Covid-19 le aree interne sono diventate quasi un'opportunità: maggiore distanziamento, sostenibilità e contatto con la natura. Possibile che la valorizzazione debba derivare sempre da conseguenze estreme come una pandemia?

«Una pandemia può essere occasione di cambiamento ma non necessariamente in meglio anche in peggio. La possibilità di ritornare o per chi resta di non partire è sì un’occasione ma a condizione che venga abbracciata concretamente. Se in un posto mancano i servizi, le strade, gli ospedali, l’aiuto alle piccole imprese, gli strumenti come il Recovery devono captare le esigenze di quel territorio, altrimenti si tratterebbe di un’occasione mancata. Questo si fa attivandosi dal basso, recependo i reali bisogni della popolazione e del territorio per intervenire». 

Con il Pnrr si rischia dunque di avere un approccio troppo burocratico…

«Sì. Più che un atteggiamento burocratico serve un atteggiamento di ascolto per la realizzazione di progetti concreti, non piani uniformi con linee guida uguali per tutti. Per fare un esempio, se dico Serra mi viene da pensare a una sua vocazione turistico-religiosa mentre altri territori potrebbero avere una vocazione all’accoglienza o alla rigenerazione dei centri urbani. Bisogna invertire lo sguardo, partire dalle periferie ed essere propensi all’ascolto. È molto importante poi tener conto della sicurezza dei luoghi. Ma questo significa prevenire, aver cura del paesaggio e dei boschi, contrastare gli incendi prima che avvengano, curarsi dell’acqua e della terra. La transizione ecologica non deve essere solo a parole perché la crisi climatica corre più della burocrazia e della politica». 

"Il senso dei luoghi" oggi più che mai potrebbe definirsi già un manifesto?

«Quel libro ha aperto un filone di ricerca e attenzione verso i luoghi abbandonati e periferici. La realizzazione del Manifesto deve partire proprio da questo, da cosa sia un luogo: non uno spazio geografico ma geo-antropico, con le sue relazioni, storie, memorie, legame con i defunti e la divinità. Uno spazio culturale». 

Il suo contributo allo Sponz Fest come si tradurrà nel concreto? Quali e a chi saranno rivolti i principali consigli per guardare alle aree interne come una risorsa?

«Assieme ai colleghi di “Riabitare l’Italia”, Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò, rifletteremo sulle potenzialità delle aree interne con esempi concreti ed esperienze positive. Il nostro riferimento saranno principalmente i giovani e gli operatori locali che promuovono iniziative dal basso. Le stesse persone di Calitri che ci racconteranno come erano quei luoghi, come sono e come dovrebbero diventare. Si tratterà di un pubblico che non solo ascolta ma che partecipa, propone. Da qui nasceranno le idee su come scrivere il Manifesto che si proporrà di essere uno strumento di lavoro, un laboratorio aperto e partecipato per fornire indicazioni ai luoghi d’Italia e alla politica. Lo scopo è trovare un metodo su come intervenire ma sempre in base alle esigenze dei territori. Si parte dai bisogni per arrivare alle risorse e non viceversa. Ci sarà tanto su cui discutere e quest’anno penso anche al confronto con ospiti come Carlo Ginzburg. Ma lo Sponz Fest darà dimostrazione anche della sua propensione alla festa con tutti gli artisti e musicisti che vi prenderanno parte».

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