Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
«Possibile che in questa terra le formiche tenaci e instancabili, laboriose e speranzose, abbiano un’effimera attenzione soltanto quando si sacrificano e trovano la morte?».
Ho un senso di fastidio e non poco disagio a citare e a riportare un mio articolo apparso sul Quotidiano della Calabria del 9 agosto del 2007 sui tanti incendi che si verificarono in quegli anni in Calabria, ma se lo faccio è perché a leggere tanti commenti e riflessioni (molti di maniera, scontati, veri luoghi comuni) sembra che ci troviamo dinnanzi a un fenomeno nuovo, che accade per la prima volta adesso.
Invece quello dei “fuochi” e degli “incendi” è un problema storico, antico, complesso, dai tanti risvolti, dai tanti volti nei diversi contesti, che è stato più volte affrontato, ma mai con convinzione, determinazione, mai risolto. Forse adesso scriverei cose diverse, forse aggiungerei altro, farei altre considerazioni, ma adesso che piango le due persone morte a San Lorenzo, Rita e Nino Cilione, perché tentavano di spegnere il fuoco che avrebbe distrutto la loro proprietà e la loro fatica, come pure Marco Zavaglia di Grotteria e Nicola Fortugno di Cardeto, ricordo quel 2007 quando il giovane Eugenio Nigro di Lappano, tornato in paese per le ferie estive, perse la vita per spegnere un incendio che stava devastando la proprietà dei suoi familiari.
Un passato che non passa, mentre le retoriche si sprecano e i commenti grondano di invettive, lamentele, buone intenzioni. Non accadrà mai più, si dice come per la pandemia e, invece, sappiamo che, se non rivoluzioniamo lo sguardo e la prassi, domani sarà uguale ad oggi. Qualcuno mette, non senza ragione, l’accento sulle specificità e le peculiarità “calabresi” degli incendi, ma così facendo rimuove ed omette che tutti noi, anche la Calabria, la Sicilia, la Sardegna (come il Canada, la Germania, per altri versi) siamo nel pieno di una crisi climatica globale, che dobbiamo pensare e affrontare anche come tale. Altri pongono l’accento soltanto sulla grande catastrofe climatica (sulla “grande cecità” che, come dice Ghosh, avvolge l’intera umanità e che i mutamenti climatici, come scrive Franzen, sono andati troppo avanti per essere controllati) e, in tal modo, deresponsabilizzano le popolazioni locali, la politica, anche molte persone distratte e incuranti e, a volta, forse interessate, a volte complici, rispetto a quanto brucia e ci brucia, corpo ed anima).
Sembra di leggere Corrado Alvaro, quando scrive che «la Calabria dà sempre l'impressione d'una terra pericolante in continua riparazione; le riparazioni appaiono puerili di fronte alla furia improvvisa degli elementi, costano molto allo Stato, da non lasciare margine alle opere fondamentali». Mai interventi radicali e definitivi. Mai una visione globale dei problemi e del territorio, sempre iniziative precarie e provvisorie, all’insegna di un’incompiutezza e di continue riparazioni che a qualcuno portano lucro. Perché – è sempre Alvaro a notarlo - sulle «catastrofi della Calabria, si sono formate fortune imponenti». E dire che la storia e l’antropologia della regione – quando vengono lette fuori di retorica e di manifestazioni effimere – non fanno altro che ricordare che l’acqua e il fuoco, elementi vitali e sacri, quando non vengono rispettati e adeguatamente trattati provocano distruzioni e lutti.
La mia bisnonna a mia nonna e poi mia nonna a mia madre raccontavano: «Una volta, tanto tempo fa c’è stato il finimondo con un grande incendio, un grande fuoco. Gli antichi dicevano che sarebbe tornato. Dopo tanti secoli sarebbe venuta la fine del mondo. I secoli sono passati adesso siamo ai tanti. I tanti possono essere un anno, cinquant’anni, cento anni. Chi lo sa. Adesso mi spagno che i tanti sono finiti».
Questo mito della fine, la memoria sotterranea del fuoco, fa il pari con quella dell’acqua che in certe circostanze diventava Diluvio, elemento di distruzione. «Cu’ éppi focu campau, cu’ éppi pani moriu», dice il proverbio. Il fuoco, per riscaldarsi, per cucinare, d’inverno, era più importante del pure indispensabile pane. Il focolare, dove si cucina e si consumano i pasti, è percepito come sede dell’“anima” della casa, del suo elemento vitale, simbolo di essa. I fuochi rituali, attorno ai quali si mangia si beve, si canta, aspettando l’alba, sono parte del paesaggio festivo di tutta la regione. Sono fuochi che parlano di socialità e di aggregazione, che rimandano bagliori di luce e di vita in comunità spesso abbandonate e spente. Ma questo stesso elemento, non controllato, abbandonato a sé stesso, come l’acqua, poteva provocare distruzione e lutti. «Focu meu», «Fochiceju meu», si dice ancora in presenza di una disgrazia improvvisa, di una tragedia, di una morte.
Fortunato Seminara ne Le baracche (1942, scritto nel 1934) ha lasciato una delle descrizioni più incisive del fuoco che provoca la fine, come in tante immagini apocalittiche. «Era la fine di settembre. Una notte, all’improvviso, mentre tutti dormivano, risonarono delle grida: “Fuoco, fuoco!”. […] Destati di soprassalto, gli abitanti si diedero a fuggire atterriti, senza tentare di mettere in salvo alcuna cosa; urla e pianti assordavano l’aria: in breve tutto fu confusione e scompiglio. Le campane suonarono a stormo, e accorse molta gente del paese alto; ma ogni tentativo per arrestare il fuoco fu vano; le baracche bruciavano come sarmenti. Le fiamme altissime gettavano dei bagliori sinistri per la campagna, richiamando gente anche dai villaggi vicini. Pianti disperati di donne e di bambini accompagnavano la furia del fuoco: quella misera turba dovette assistere alla distruzione di ogni suo bene, impotente a opporvisi. Quando, verso l’alba, arrivarono i pompieri da una città lontana, le baracche non erano più che un mucchio di rovine fumanti».
In mezzo a tanta desolazione e devastazione, che spingono al pessimismo e alla sfiducia, poi affiorano i segni di speranza proprio in quella Calabria silenziosa, sobria, che non appare, non sa e non vuole fare parlare di sé, non chiede le luci della ribalta, non ha visibilità mediatica. In quella Calabria di gente pronta a rimboccarsi le maniche, a faticare, a resistere, ad amare i luoghi e la bellezza, anche a sognare. Francesco Perri nel suo splendido romanzo Emigranti (1928) scrive: «Su ognuno di quei poggi si vedevano vecchie mura diroccate, navate di antiche chiese abbandonate. Erano ruderi di paesi distrutti dal terremoto in diverse epoche. Eppure accanto a quelle rovine altre case erano sorte, altre chiese, altri campanili: i superstiti seppelliti i loro morti, avevano riedificato, come le formiche, quasi sulle tombe; avevano riassettati i terreni sconvolti, li avevano riscattati dalle frane e dalle alluvioni, ed avevano fondato su esse le loro fatiche e le loro speranze».
E se dunque ora provassimo, tutti assieme, a mettere al centro della nostra cura, del nostro riguardo, delle nostre azioni l’Ambiente e il Clima? E se chiedessimo al governo nazionale e alle forze politiche che si candidano al governo della Regione di fare una scelta netta, di destinare buona parte delle ingenti somme in arrivo con il Pnrr per l’Ambiente, per una transizione ecologica che non sia solo di facciata, per trasformare in opportunità e in ricchezza quella che sembra una “maledizione”, per fare della Calabria un modello, un laboratorio, un luogo emblematico di come anche in altri parti del mondo si possa, finché siamo in tempo, operare per avere cura dei boschi, delle acque, dei fiumi, dei mari, dei luoghi, dei paesi, delle persone.
Non c’è tempo da perdere né qui né altrove. Le parole e le lamentele stanno a zero. Piangiamo i nostri morti, osserviamo con sgomento e dolore le fiamme e il fumo che ci devastano, riflettiamo, meditiamo, ma cerchiamo di dare un senso a questi luoghi belli e amari, alle persone perbene e laboriose che ancora muoiono e si sacrificano per difendere la loro fatica e i loro beni. Che poi sono beni comuni. Sono linfa vitale, come l’acqua.
C’è solo tanto da fare, sposare con convinzione, in maniera radicale, una ecologia non di maniera e parolaia, ribaltare modello di sviluppo, avere riguardo e cura del mondo che ci è stato dato e che dovremmo lasciare, abitabile, a quelli che vengono dopo.
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