Domenica, 08 Dicembre 2024 09:15

Il progresso è un'altra cosa

Scritto da Valentino Santagati
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Pietro Romeo (foto di Sebastiano Stranges) Pietro Romeo (foto di Sebastiano Stranges)

La morte infame e inesorabile, modello perfetto di produttivismo e frenesia, ha interrotto il percorso biografico di Pietro Romeo, ricco di opere e di giorni, e così facendo ha reciso uno degli ultimi tenui fili che collegano la Calabria al suo cordone ombelicale, alla plurimillenaria civiltà rurale e artigianale mediterranea di cui la nostra regione, prima di precipitare nella voragine buia detta globalizzazione, è stata un’articolazione importante, un luogo di elaborazione culturale, di scambi ed immigrazioni favorito dalla centralità geografica.

Petruzzu si era affacciato alla vita il 16 agosto del 1927, mentre nello scenario nazionale si svolgeva da un lustro il tragico carnevale littorio culminato poi nella guerra del Quaranta e in quello internazionale si segnalavano le manifestazioni contro la barbara condanna alla sedia elettrica comminata negli Stati Uniti agli anarchici italiani Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco. A Razzà di Brancaleone aveva stabilito a un certo punto la residenza, aveva vissuto con la famiglia e attivato il suo frequentatissimo laboratorio di costruzione delle zampogne e di altri strumenti musicali diffusi nei contesti rurali del territorio; ma le sue radici  affondavano però in un'area vasta, coincidente con il comprensorio in cui la masseria condotta da suo padre si era insediata utilizzando terre agricole e pascoli ricadenti nei territori comunali di Staiti, Palizzi (dove Pietro era nato) e naturalmente di Brancaleone.

La masseria nella Calabria rurale del passato era, come ci spiega  un utilissimo libro ottocentesco di Giuseppe Antonio Pasquale, una forma di conduzione di terreni cerealicoli associata alla pastorizia, che poteva edificarsi su assetti diversi rispetto alla proprietà dei fondi mantenendo una riconoscibile fisionomia così descritta dal nostro autore: in mezzo a dei campi o poderi scapoli, da uno fino a cento ettari, […] in cui non può mancare una riunione di edifizi rurali, vi abitano de’ pastori, guardiani, bifolchi attissimi ad arare, e presso vedi tutto l’armamentario rusticale in uso nel paese, come aratri, carri,  ecc., una larga aja adiacente,  mucchi di letame, animali domestici agirantesi intorno,  oltre quelli dell’armento grosso , galline, maiali, asini …  

Il brulichio di umani e non umani  nella masseria, l’intimità affettuosa con l’ambiente di insediamento manifestata dalle persone con cui aveva quotidiana consuetudine hanno folgorato Pietro Romeo nell’infanzia, gli hanno dato una misura della vita e del mondo, un reticolo di riferimenti emotivi e sociali, il  bagaglio con cui ha viaggiato nei novantasette anni che la sorte gli ha concesso: lo dicono con chiarezza tante testimonianze autobiografiche registrate nell’ultimo trentennio approfittando della sua voglia di contribuire alla ricerca storica e antropologica. La masseria era popolata da gente che sapeva fare, disponeva del proprio corpo e dei propri sentimenti e, muovendosi nell’ambito di una religiosità intrisa di elementi strutturali di matrice precristiana, tendeva a onorare i rapporti con le forze soprannaturali in azione nella natura attraverso una copiosa produzione acustica.

Pietro bambino impara presto a suonare e a costruire da sé zambareddi e doppi flauti, e non acquisisce queste abilità ascoltando e guardando il padre (pregevole suonatore di zampogna a paru e â moderna ma inattivo nel ventennio fascista): segue invece come un’ombra un anziano pastore di Staiti in forza alla masseria. Pietro Romeo, e lo evidenziamo ricalcando stavolta Corrado Alvaro, nei suoi primi dieci anni vasti, lunghi e pieni di meandri definisce dunque la sua disposizione d’animo e d’ingegno inclinata alle arti e, al contempo, getta le basi della futura mastrìa, dell’attività artigianale (non esercitata soltanto nella produzione di strumenti musicali) per la quale era rinomato in provincia di Reggio Calabria a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

Sapeva cantare molto bene giovandosi di un’espressività e di modalità  di emissione della voce emozionanti  e inconfondibili: in due pubblicazioni dedicate alla musica calabrese di tradizione orale, La capra che suona e Intrecci Sonori, è protagonista di altrettante splendide esecuzioni, ben conosciute nel circuito degli intenditori e degli appassionati (con il fratello Domenico e il grande zampognaro Nando Scopacasa - nell’occasione chitarrista - nell’una, con Peppino Romano di Antonimina e Totò Caracciolo di Siderno nell’altra).

La tirannia dello spazio non mi consente di dilungarmi in questa sede sulla consistenza e sulla qualità delle memorie e dei saperi assimilati da Pietro (una vera e propria miniera di informazioni sulle vicende locali, sulle genealogie e le parentele, sui siti di interesse archeologico, sulle conoscenze tramandate dalle generazioni precedenti), per fortuna consegnate in parte a un corpus di registrazioni in cui dialoga con vari interlocutori e racconta episodi di cui è stato testimone o che a sua volta aveva conosciuto attraverso narrazioni altrui. Voglio chiudere però con due osservazioni.

Pietro abbandona questo mondo martoriato dalla brutalità tecnologica ed economica in un momento in cui chi muore alla sua età non lascia eredi: il tempo che viviamo, il nostro presente storico svuota il suo corpo e la sua anima inseguendo incessantemente l’innovazione tecnologica continua, alla quale affida le chiavi della conoscenza svalutando il passato e le esperienze accumulate dagli uomini e dalle donne da cui discendiamo. Di personalità salde, appagate, stratificate come quella di Pietro si è perso lo stampo: sono state il frutto, per usare parole di Piero Bevilacqua, del mutuo dialogo tra le generazioni […], che consentiva di vivere con acuta percezione le diverse dimensioni del tempo, si sono forgiate quando nel quotidiano dei  nuclei familiari e delle comunità il passato era sempre di scena e lo spazio mentale degli uomini – e quindi il senso stesso della durata della vita – era temporalmente più lungo di quanto non sia adesso. Perché il passato non veniva ogni giorno buttato via, come accade oggi, quasi consumato con un uso frettoloso. Esso occupava una parte rilevante, costituiva una parte integrante, emotivamente viva, dell’esperienza esistenziale di ognuno.

E poi a Pietro va riconosciuto il merito di avere espresso in molteplici circostanze, con grande efficacia e lucidità, il suo dissenso nei confronti della società in cui siamo ora immersi: una poltiglia amorfa di ambienti avvelenati e ricoperti di tombe d’asfalto, un trionfo della circolazione irrefrenabile di individui anonimi schiacciati dal lavoro e dal consumo in una realtà priva di senso e di masserie. “Da cinquanta anni a questa parte – ha detto una volta e qui lo citiamo traducendo dal suo vivace calabrese – non abbiamo avuto nessun progresso; alcuni considerano un progresso la cura dell’abbigliamento con i giusti abbinamenti ma nelle cose essenziali siamo andati indietro: non vedete le terre come sono abbandonate? Siamo poveri e pazzi in verità, maestri di vita miserabile”.

L’emancipazione, pensava Petruzzu con la sua bella testa ben piantata sulle spalle, non te la regalano i soldi ma l’autoproduzione del cibo e l’indipendenza intesa come capacità di arrangiarsi da sé. Ci ha lasciato purtroppo un uomo libero, un grande calabrese, e lo salutiamo commossi e riconoscenti mentre indirizziamo ai familiari un abbraccio affettuoso.

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