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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Quando da piccola la scuola del mio paesino mi faceva leggere e interpretare parti di personaggi dello scrittore locale Serafino Maiolo non pensavo che avrei ritrovato la sua cifra stilistica e la sua corrente in studi delle superiori. I Neorealisti meridionali di quell’epoca incarnano al meglio l’espressione di un popolo, un attaccamento carnale alla terra, una tradizione quasi genetica, che è facilmente rintracciabile non solo nei più famosi Carlo Levi, Corrado Alvaro, Fortunato Seminara, Saverio Strati, ma anche in autori come Sharo Gambino. Lo scrittore serrese, originario di Vazzano, riprende luoghi, temi, folklore e tradizioni della terra da cui proveniva e, con toni tipicamente neorealisti, li traspone in opere che parlano ancor meglio agli animi meridionalisti dei “terroni”, anche più moderni. È proprio riprendendo Carlo Levi che si apre, infatti, la prefazione di Tonino Ceravolo a quello che è considerato il più bel romanzo di Gambino: Sole Nero a Malifà (Rubbettino, 2009), a tal punto, dicono alcuni, da sembrar scritto da Alvaro.
E riprendendo ciò che Calvino diceva su Levi possiamo ben descrivere anche quella prosa pacata che era dello scrittore serrese: “[…] La classicità della parola si realizza di fronte a una materia che è tragedia, che è caos, che è catastrofe. La meditazione si basa sull’opposizione tra sacro e religioso […]; e da essa prende forma una selva di figure allegoriche, d’animali, di simboli: nella forzata allusività e reticenza che la situazione esterna imponeva, la temperatura magica del libro si carica, e la scrittura sostenuta su un tono alto, evocativo, ieratico ha una sua funzione, è una cosa sola con il suo oggetto”.
Così la civiltà dei terroni, il mondo pre-industriale calabrese, si fa portatore di un microcosmo in cui tradizione e sofferenza sono direttamente proporzionali al valore di una vita che deve essere vissuta nella credenza di un male incarnato parossisticamente nelle cose terrene. La descrizione devota della realtà di quello stesso paesino contro la cui analfabetizzazione Gambino lottò, è attuata con uno scrupolo di fedeltà che rimanda a Verga e alla sua paura del progresso. Ma, nel caso del piccolo Gesuino, nomen omen, non è la storia a fare da mostro ignoto e dirompente, bensì la superstizione di una madre e di una religione familiare blasfema e morbosa, totalmente contrapposta a quella de I Malavoglia.
Nella storia di Gesuino, alter Christus, si indagano temi ben più complessi delle culture popolari: vi si scorge un’ombra di auto-annullamento, la giustizia e l’ingiustizia, il senso di colpa per un destino che non si è scelto e che si rifiuta idiosincraticamente, la gelosia e il rammarico verso donne che non sono - per una volta nella letteratura - immagine e simbolo di lussuria, ma consolazione alla perdizione, come dimostra Tera, unica àncora dell’innocenza di Gesuino. Vi è il sentimento della pietà, verso gli altri, ma verso se stessi ancora di più; una pietà dovuta all’infelicità di una vita disgraziata che non si sente di poter accettare, ma che ci si sentirebbe traditori ad abbandonare. Conseguentemente a questo sentimento non può che esserci allora una prostrazione volontaria alla miseria del Sud, alla religione dei luoghi, cui sopravvive l’anima, in quella cultura della dimenticanza su cui Mariano Meligrana, come Luigi Lombardi Satriani, rifletteva in chiave critica, ossia su quella damnatio memoriae che le culture dominanti hanno fatto scendere sulle culture subalterne, che sempre torna come spettro e non è mai rimossa dalla cultura dei luoghi, altro grande tema del realismo dei vinti di Ragonà. Le famiglie del Sud sentono attaccamento alla terra perché è la casa dei loro padri, ed è lì che scelgono di morire, perché vi appartengono: appartengono alla terra dove essi sono sepolti. Per questo fondamentali sono i luoghi, quegli stessi in cui la morte diventa comunitaria e in cui si rivendica la vita; così la fede diventa strategia di superamento dell’evento luttuoso, sistema di relazione con i morti, configurazione del mondo ultraterreno, perché d’altronde “la notte, a Malifà, è dei trapassati”. È un romanzo d’attesa, Sole nero a Malifà, attesa di misericordia e riscatto, ma anche un romanzo sul terrore arretrato di Dio, sulla violenza che può attuare la religione malata, sulla coscienza auto-manipolata, che incarna soltanto “l’aspetto deteriore di una religione malamente insegnata”. Dunque, in Gesuino, il più escluso degli esclusi - contraltare, mi verrebbe da dire, della Lupa verghiana, malizioso in maniera del tutto contraria, perché grottesco sovvertimento della religione, al personaggio della donna, invece consapevole della sua condizione – Gambino tira fuori un lato della fede che è superstizione, rovina, redenzione blasfema, ma soprattutto opposta a ciò che si cercava: Gesuino voleva il perdono, è stato invece giustiziato. Tale sacrificio però non servirà alla pulizia di una comunità relegata nel culto del malocchio, della malizia, in un manicheo bigottismo, ancora forse irredento per chi, con sguardo giudicante, la guarda dall’esterno. Tuttavia il Sud, il “maledetto Sud” a cui Vito Teti ha dedicato molti suoi studi, non è solo quella civiltà diluita e disciolta sotto i raggi arroventati dell’omologazione culturale, ma anche un “tesoro” costituito da paesi, popoli, tradizioni preziosi che forse dovremmo imparare a “proteggere”, con una cura analoga a come gli scrittori neorealisti cercavano di fissarli sulla pagina. La restanza non dovrebbe essere una vacua predica, dovrebbe essere attuata spiritualmente e intellettualmente, perché, come ha detto Hölderlin, noi siamo colloquio, e la tradizione dei luoghi e dei culti deve essere punto di riferimento, non meno saldo solo perché silenzioso, nel nostro pensiero, nella nostra sensibilità, nel nostro agire. Memoria, dunque, e per ciò stesso vita.
*L’articolo riproduce la presentazione a Sole nero a Malifà dell’autrice, studentessa della VB del Liceo Scientifico di Serra San Bruno, in occasione del reading su Sharo Gambino tenutosi presso l’Istituto di Istruzione Superiore “L. Einaudi” il 19 febbraio 2025
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