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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Da giovane, quando iniziava il tempo della vendemmia, zaino e sacco a pelo e partiva per la Francia, a lavorare nelle vigne. Chissà quanti Bordeaux, in giro per il mondo, sono passati, ben prima di diventare tali, sotto le mani di Gigi Cunsolo. E il viaggio diventava pure occasione per incredibili avventure, da raccontare al ritorno. Perché quando ci si sposta in modo fortunoso, andando per strade facendo l’autostop, l’inatteso è dietro l’angolo, come quella volta che sistematosi a dormire al riparo di un ponte si era risvegliato in mezzo all’acqua, visto che intanto, di notte, il fiume vicino era esondato per la pioggia. Accanto al lato avventuroso, c’era quello istrionico, quasi surreale, come le volte che gli veniva in mente di imitare le pose dell’orso o quelle del gufo (l’urzu e lu gulìu) e se ne stava per interminabili minuti, terribilmente serio, a contemplare immobile la sua immagine in uno specchio. Gigi amava la vita, convinto che ogni momento meritasse di essere vissuto nel più pieno dei modi, come accadeva con il meticoloso e lento rituale di preparazione della sigaretta, rigorosamente fatta a mano (turciuta) e poi fumata senza fretta, assaporandone con gusto ogni boccata, ancor meglio se accompagnata da un caffè. Caffè e sigarette le incontreremo di nuovo, verso la fine.
Di quella generazione di serresi che negli anni Settanta del secolo scorso avevano scelto Pisa per i loro studi universitari Gigi era certamente uno degli esponenti più conosciuti. Prima di lui c’erano state sua sorella Iole e Rosetta Regio, che nella prestigiosa sede universitaria toscana erano andate per Lettere classiche e Filosofia, nei suoi stessi anni erano partiti Alfonso Petragnani (Chimica) e Valerio Pelaia (Biologia). Dopo ce ne sarebbero stati molti e molti altri, sino ai nostri giorni. Gigi, però, si spostava a Pisa portandosi dentro un rapporto non semplice con gli studi accademici, forse vissuti con un senso di obbligo che faceva a pugni con il suo sconfinato senso di libertà. Stare per ore piegato su quei libri era qualcosa che non gli si confaceva e mentre leggeva (o faceva finta di leggere?) ponderosi volumi forse la mente volava libera altrove. Chi gli è stato vicino in quegli anni probabilmente ricorda ancora il corpo a corpo, che a lui doveva sembrare quasi titanico, con il malloppo di storia moderna di Giorgio Spini, da sorbirsi per l’esame con Furio Diaz. Gigi saltava a piè pari le note, ritenute evidentemente noiose e superflue, concentrandosi soprattutto divertito sulle vicende di amori e intrallazzi delle case regnanti europee, che gli procuravano risate fragorose. Alla fine, non si era laureato e si era votato interamente alla chitarra.
Ecco, la chitarra. Libero anche in questo, aveva rinunciato alla formazione nel conservatorio e si era scelto i maestri che più reputava consoni alla sua idea della musica (classica, non c’è nemmeno bisogno di dirlo), a dimostrazione del fatto che si può essere grandi musicisti pure al di fuori dell’accademia e quasi da “irregolari”. Grande e grosso com’era, con la chitarra in mano acquistava una levità, una leggerezza che, mentre suonava, sembravano negare la pesantezza della materia del suo corpaccione e dello strumento che teneva in mano. Di tutto quell’aggregato materiale rimanevano nell’aria soltanto le note, ottenute con una cura e con un indefesso esercizio diurno che avevano del prodigioso. Le gambe, le braccia, le mani, la schiena, erano minuziosamente posizionate perché da quella geometria corporea scaturisse la condizione migliore per le sue frasi musicali. E, ancora una volta, lo specchio, dinanzi al quale andava a sedersi per valutare la correttezza della postura, per correggere difetti e improprietà, per dare ordine e armonia ai movimenti. Se nell’attimo in cui cominciava a pizzicare le corde la musica sembrava fluire spontanea e incantevole, con quei passaggi da grande virtuoso che catturavano l’uditorio, nulla lasciava intravedere il duro lavoro dietro le spalle e la rigorosa disciplina che avevano reso possibile quelle meraviglie. Davvero un “chitarrista geniale”, che alla fatica professionale della sua “vera” musica, da giovane sapeva anche affiancare i Gaber, i De Andrè, i Guccini, da riservare alle serate e alle tavolate con gli amici o ai dopo cena nelle pisane Logge di Banchi, perché Pisa, lasciata da un po’ di anni per la vicina Calci, gli era entrata nell’anima e ne conosceva i mille segreti.
Finché, poco più di dieci anni fa, si era anche scoperto scrittore, inaugurando questa sua altra vita parallela con quell’Otto ore di preghiera. Riflessioni sul tempo di un libero pensatore (Lapsus Libri, 2010) di cui ha già parlato Bruno Greco su queste pagine. Alle Otto ore aveva fatto seguito Conchiglie. Tracce di vissuto in forma letteraria (Carmignani, 2014), in cui aveva voluto dare forma e configurazione a quel fluire della coscienza da cui aveva ritagliato, nel mare magnum dell’esperienza vissuta, “pezzetti di vita” o anche, come le aveva definite nella premessa al libro, “conchiglie”: “Alcune son belle, altre brutte. Divertenti, ironiche o noiose. Futili, importanti, assurde, romantiche, pretenziose, originali, demenziali, banali, sagge, buffe. Ognuna di esse però è stata raccolta e conservata. Ognuna è un pezzetto di vita, nel bene o nel male” (p. 11). Insomma, il risultato di una passeggiata lungo una spiaggia, che, secondo Gigi, rappresentava la vita stessa, in bilico “tra l’elemento solido e quello liquido: fra il mutevole e l’assodato, il mare e la terra”. E il mare e la terra, il liquido e il solido, ritornano impliciti pure nel titolo dell’ultimo lavoro di Gigi (Ogni uomo è un’isola. Opinioni deliranti di un ragazzo ultrasessantenne) che ancora non ha visto la luce, perché pure i libri, come la musica, hanno bisogno di cura e Gigi, da qualche mese, questo stava facendo, con la compagna Alessandra, con la sorella Iole e con l’autore di questa nota. Ed è qui che riappaiono la sigaretta e il caffè: “La seconda sigaretta, intervallata dal caffè, conclude, come una pietra miliare, un flusso di pensieri ed emozioni svoltisi durante un anno: stesso posto, stessa ricorrenza e stesso uomo ma arricchito con i segni incisi dalla vita nella sua anima. La sagoma di un giovane amico appare e, attraverso le volute di fumo e gli avventori, protendiamo i nostri ponti l’uno verso l’altro prima di andare a scrivere qualche frase sulla pagina bianca di questo nuovo giorno del mondo. «Ciao Marra, alla prossima e stammi bene!!!»”. Sono le parole conclusive del libro. Non so se anche le ultime che Gigi abbia scritto.
In questi casi si dice “ti sia lieve la terra”, ma vorrei anche dirgli (penso anche a nome dei tantissimi che gli hanno voluto bene, di Antonio, Giuseppe, Enzo, degli altri due Gigi, di Pino e Brunello e molti e molti ancora) che ci ha spezzato il cuore e che non doveva farcelo.
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