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Nel Belpaese dove ogni giorno è Natale e Capodanno — ma restano nelle grandi città le file chilometriche di persone in attesa di un pasto caldo offerto da volontari — si sprecano 270 milioni di tonnellate di cibo (dati JRC). Un primato che rivela tutte le contraddizioni di chi ha dimenticato la civiltà contadina e ora preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto. Anche il senso della festa è ormai andato perduto: non si celebra più il rinnovamento bensì la quotidianità (leggi qui e qui gli articoli con le riflessioni di Vito Teti e Tonino Ceravolo su quanto scrisse anche Sharo Gambino). La festa, insomma, si scopre ordinaria tra il resto dei giorni e non è più preceduta dall’attesa di un tempo.
Dove è finita la festa?
Scrive Teti che da inizio dicembre fino all'Epifania tutte le feste erano improntate sulla convivialità e abbondanza, a volte solo desiderata e sognata. Il digiuno della Vigilia di Natale prevedeva in tavola nove, tredici, venticinque cose. Numeri legati probabilmente alla gestazione di Maria, agli apostoli e al giorno della Natività, anche se non si sa con certezza da dove derivino. Oggi non c’è nemmeno bisogno di contarle perché quelle portate sono sempre presenti sulle nostre tavole imbandite, dove abbondanza è diventata sinonimo di spreco, e non di festa, e il cibo che finisce in spazzatura rende qualcuno persino soddisfatto perché l’apparenza conta più di ogni altra cosa.
Il ricordo della strenna
È talmente cambiato l’immaginario collettivo che oggi onorare alcune tradizioni mette vergogna, come la strenna che un tempo facevano i bambini a Capodanno. Sempre Teti, descrivendo il significato di rinascita legato alla festa, racconta come in passato i bambini a Capodanno si recassero nelle case per la “strìna”. «Cominciammo anche noi – è il suo racconto – ad andare a cercare la strenna il giorno di Capodanno. Era un gioco, un'esperienza da condividere, ma quando una porta si apriva quello che provavamo era molto vicino alla felicità. Al mattino, salvo future disgrazie, la prima persona da cui si ricevevano gli auguri doveva essere un uomo, meglio un bambino. A Capodanno dovevo alzarmi presto per andare a bussare alla porta di Caterina e delle tre figlie, grandi narratrici di storie e di leggende. Quando mi aprivano, formulavo gli auguri, mi abbracciavano ed era una piccola festa, con dolci fatti in casa, confetti, le prime merendine. Ero protagonista di un rito di rifondazione e di rinascita, dove il bisogno concreto di mangiare e di superare la fame raccontava un'esigenza di sopravvivenza naturale e culturale».
Nostalgia, cura per il futuro
La nostalgia insomma va intesa non come sentimento regressivo, ma come un aiuto a riflettere sul presente perché «l'Occidente obeso e ortoressico, che oscilla tra manie e fobie del cibo, si tuffa senza ritegno in abbuffate senza più alcun valore simbolico e rituale, in sprechi alimentari che darebbero da mangiare a milioni di affamati», mentre «in altre parti del pianeta, fame e sete, iniqua distribuzione delle risorse sono i fattori delle guerre e degli spostamenti di popoli». Rispetto alla perdita delle tradizioni l’antropologo di San Nicola da Crissa osserva: «Ricordare non significa sognare un ritorno al passato ma meditare su questo presente pieno di oggetti e vuoto di valori, denso di conoscenze e scarso di legami autentici».
Il nostro augurio
L’augurio de Il Vizzarro è che ognuno di noi possa ritrovare il coraggio di guardare al futuro senza rimpiangere, ma neanche dimenticare, il passato. E che ogni giorno sia per tutti un Capodanno non all’insegna del consumo e dello spreco ma come lo intendeva Antonio Gramsci: «Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione». Dunque a tutti «Buonu Capudannu/facitimi la strina ca si no mi dannu».
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