Il Vizzarro.it - quotidiano online
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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Lo storico inglese Christopher Duggan, nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi", sostiene che il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia sia debole ed inconsistente. Figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi è stata l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale. Per dirla con Sciascia, si parla di questione meridionale grazie all’impegno degli scrittori meridionali, senza le cui denunce essa sarebbe rimasta una “leggenda nera”. Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola umana a Serra San Bruno, patria anche dell’amico, più volte ministro, Bruno Chimirri. Il poeta serrese faceva uno dei mestieri più duri, lo scalpellino; aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi morali della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta, che osservò con estrema coerenza, senza timore di scontrarsi con l’ordine costituito e con la moralità del tempo. Esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, dei concetti e dei principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale. Non si può parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe, essa è figlia piuttosto di un “istinto di classe” che nasce dalla consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri, gli sfruttatori e gli sfruttati, e dalla percezione del poeta serrese di appartenere a quest’ultima. In Mastro Bruno la Questione Meridionale, come rilevato dallo studioso Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori” (nota raccolta dei versi di Pelaggi) fin dalla prima edizione, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma soprattutto come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta che lo conduce, partendo dalla propria esperienza, a fare delle considerazioni e delle riflessioni più generali ed universali che saranno poi alla base della coscienza meridionalistica. Mentre vi è una serie di otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un frammento costituito da otto quartine dal titolo “Quand’era giuvinottu” in cui il poeta serrese tenta di cogliere, dal suo punto di vista e a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario, facendo riferimento anche all’attività cospirativa nei confronti del primo.
Quand’era giuvinottu, Quand’ero giovanotto
jio mi ricuordu appena io mi ricordo appena
ca si dicia ca vena che si diceva venisse
Cientumasi; Cientumasi;
di sira, ‘ntra li casi, di sera, dentro le case,
cu’ certi carvunari, con certi carbonai,
pimmu ‘ndi dinnu mali per parlarci male
dilli Borboni dei Borboni.
Ch’era ‘nu lazzaroni Che fosse un lazzarone
‘n sigrietu si dicia; segretamente si diceva;
c’ognunu non vulìa perché ognuno non voleva
mu parra forti, parlare ad alta voce,
picchì a sicura morti perché a sicura morte
jia ‘ncuntru, o carciratu andava incontro, o carcerato
e pue cadia malatu e poi cadeva malato
e si futtia. e si scornava.
Tandu non capiscia; Allora non potevo capire;
però (mancu li cani!), però (cosa malagevole!)
cu chist’atri suvrani con questi altri sovrani
si dijuna. si digiuna.
‘N Calabria ormai la luna In Calabria ormai la luna
Va sempi alla mancanza, va sempre a mancare,
e non c’è cchiù spiranza e non c’è più speranza
ca ‘ndargimu. che ci risolleviamo.
C’arriedi sempi jimu, Poiché andiamo sempre più indietro,
li mastri e li fatighj; sia le maestranze e sia il lavoro;
chissu lu capiscivi questo l’ho capito
non di mò; da molto tempo;
Ca lu Guviernu vò perché il governo
sulu pimmu ‘ndi spògghja, vuole solo spogliarci,
mu ‘ndi leva la vòggjia facendoci passare la voglia
mu stacimu… di rimanere qui…
In questo componimento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricordando uno dei tanti episodi della sua gioventù, riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che verosimilmente dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, quello che oggi sarebbe identificato col termine “terrorista”, uno dei briganti ribelli che all’epoca erano mal sopportati dall’assolutismo borbonico. Dai primi versi traspare la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale di cui anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Di certo il regime borbonico non sopportava critiche o denunce sociali e gli autori erano puniti con il carcere o addirittura con la morte. Il poeta dopo aver descritto quest’attività pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente. Se durante la monarchia borbonica la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, se il regime assolutistico faceva di tutto per mantenere la Calabria nell’arretratezza sociale e nella conseguente povertà, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire proletarie sfiorano la fame e vengono sommerse da nuove tasse per rimpinguare le casse dello Stato piemontese che si era fortemente indebitato e la cui economia era assai inferiore rispetto a quella dello stesso Stato borbonico. E’ noto agli storici come le maestranze artigianali, che spesso erano dei veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.
Basta! – Simu ‘Taliani! – Basta! – Siamo Italiani -
Gridamma lu Sissanta. Abbiamo gridato il Sessanta.
(Ad Umberto I, vv. 69-70)
Per il cosiddetto meridionalismo classico, la Questione Meridionale consiste nella mancata integrazione economica del Sud nel processo di sviluppo capitalistico a cui era avviato il Nord, mentre per le correnti d’ispirazione marxista questa integrazione in realtà è avvenuta, ma secondo le modalità con cui il capitalismo, nella sua fase avanzata, rende funzionale al suo sviluppo l’economia dei paesi arretrati, annettendoli ed utilizzandoli come serbatoio di manodopera a basso costo e come colonia a cui vendere i prodotti. Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri hanno guardato all’unificazione; il passaggio di Garibaldi nella penisola fu infatti motivo di acceso patriottismo anche tra i ceti meno abbienti, che guardavano all’unità come alla promessa di un futuro migliore. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune, superando ogni differenza etnico-localistica. Ma questo non avvenne e dopo l’Unità le divergenze sociali ed economiche riaffiorarono. Con la caduta delle barriere doganali un maggiore flusso di viaggiatori ed uomini di cultura arrivò nel Mezzogiorno e, non conoscendo la realtà sociale e le ragioni dell’arretratezza, si espressero con motivi di disprezzo nei confronti della gente del Sud. A ciò è da aggiungere come improvvisamente il nuovo Stato si trovò a fare fronte ai debiti contratti dallo Stato sabaudo, per risolvere i quali si procedette ad una politica di tassazione più marcata proprio nel meridione. Sul popolo calabrese, dopo l’Unità d’Italia, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi di nuovo e il Mezzogiorno subì un abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale. Cosi Mastro Bruno, esprimendo disperazione e solitudine e identificando l’uomo meridionale sfruttato e deriso dai potenti nonché deluso dagli uomini, scrive al Re:
Picchì hai mu li nascundi Perché devi nascondere
li gridi calabrisi? i lamenti calabresi?
Non pagamu li spisi Non paghiamo le tasse
‘guali a tutti? uguali a tutti?
Ma tu ti ‘ndi strafutti; Ma tu te ne strafotti;
li deputati cchiùi: i deputati ancora di più:
duvi ‘ncappama nui, devo siamo capitati noi,
povar’aggenti! Povera gente!
(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)
Ma non avendo nessuna risposta da Umberto I il poeta decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione e la sua provvidenza sconvolga l’ordine terreno basato sulla diseguaglianza:
Non vidi, o Patritiernu, Provvedi, o Padreterno,
lu mundu mu sdarrupi, a distruggere il mondo,
ch’è abitatu di lupi perché è abitato da lupi
e piscicani? e pescecani?
(Lettera al Padreterno, vv 1- 4)
A nui ‘ndi scuorticaru A noi ci hanno scorticato
li previti, l’avaru i preti, l’avaro
e lu Guviernu. e il governo.
(Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)
In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale. Il degrado in cui fu lasciato il Mezzogiorno fece sì che l’insicurezza economica dei comuni del sud causasse il rifiuto dei loro amministratori nei confronti di prestiti a condizioni vantaggiose per la costruzione di opere pubbliche, con la conseguenza che di queste condizioni vantaggiose approfittarono settentrionali intraprendenti che vedevano in questi prestiti una sorta di investimenti redditizi a lunga scadenza. Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se. Essa è l'interlocutore a cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, è insomma quello che un uomo non potrà mai essere.
Quantu’agghjuttivi amaru Quante amarezze ho ingoiato
‘ntra ‘st’esistenza mia! in questa mia esistenza!
Luna, si non niscia Luna, se non fossi nato
quant’era mieggju! quant’era meglio!
La Calabria, con le sue vestigia di un passato che spesso sembra non voler passare, racchiude nella parte più nascosta e misteriosa del suo seno luoghi, eventi, fatti, misfatti e circostanze che, pur avendone tratteggiato il destino, sembrano essersi definitivamente smarriti nel lento, ma sornione ed inesorabile divenire del tempo. Una regione fatta di storie senza storia, di racconti senza narratori, di romanzi senza romanzieri. Ciascuno conserva qualche episodio tramandato più della memoria orale che dal rigore scientifico degli amanti di Clio. E così a sopravvivere sono storie antiche, a volte remote, di cui si è perso però il pur minimo riferimento documentale. I greci, gli arabi, i bizantini, i normanni, se non fosse per qualche toponimo è come se non ci fossero mai stati. I luoghi della memoria giacciono negletti, abbandonati, come se avessero la colpa di far ricordare un passato più incerto ma meno aleatorio del vuoto e grigio presente. In un contesto in cui alla memoria collettiva si è spesso sostituita l’immagine folcloristica da sagra paesana è sempre più difficile elaborare un processo storico condiviso in grado da fungere da volano turistico. Mentre altrove si scrivono storie, si rielabora il passato e si valorizzano territori, in Calabria, al contrario, si lascia agonizzare lentamente quel che di buono è scampato alla furia dei terremoti, all’impeto delle alluvioni, alle scorrerie di vecchi e nuovi predoni. Nella parte più alta di monte Pecoraro, da dove è possibile scorgere le increspature dello Jonio e le arsure della vallata dello Stilaro, sorge ancora quel che rimane di Ferdinandea. Un nome evocativo, dal quale traspare inequivocabile l’origine Borbonica. Correva l’anno 1833, quando veniva inaugurato quello che molti per troppo tempo erroneamente riterranno il casino di caccia di re Ferdinando II. Al contrario, l’imponente realizzazione edificata nel cuore della montagna, tra superbi abeti e faggi secolari, costituiva il nucleo secondario di una ferriera, succursale degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Il nuovo insediamento rappresentava una scelta piuttosto felice dei tecnici borbonici che, evidentemente, avevano metabolizzato la teoria del vantaggio competitivo elaborata da Adam Smith. Il luogo individuato aveva, infatti, caratteristiche del tutto peculiari. Ad un tiro di schioppo dai monti Stella e Cosolino, dai quali per secoli era stato estratto il minerale di ferro che aveva alimentato tante rudimentali ferriere, nel cuore di un bosco dove abbondava il legname necessario ad alimentare gli altiforni, a pochi metri da corsi dai corsi d’acqua indispensabili nelle diverse fasi della lavorazione. Del resto qualche anno prima dell’edificazione di Ferdiandea, tra ‘7 e ‘800, a Piano della Chiesa, a poche centinaia di metri dal più recente insediamento, era attiva una piccola comunità dedita alle attività siderurgiche. Di quel minuscolo villaggio, perso tra le selve delle Serre, oggi non sopravvivono che pochi resti. Un’edicola incastonata nel muro di quel che doveva essere un modesto edificio di culto ed un magnifico altoforno a manica, forse l’unico esemplare al mondo, avvolto e coperto dalla fitta vegetazione cui, con ogni probabilità, va attribuito il merito di averlo risparmiato dalle poco amorevoli attenzioni dei soliti cacciatori di frodo. Che in questo sito l’attività dovesse essere piuttosto intensa lo testimoniano le centinaia di scarti di lavorazione che, ad oltre due secoli di distanza, è ancora possibile raccogliere sul terreno coperto dalle foglie. Nel corso della sue breve esistenza produttiva, Ferdinandea seguì inevitabilmente la stessa sorte toccata a Mongiana costretta a chiudere subito dopo l’unità d’Italia. Il 27 agosto 1860 un contingente garibaldino circondava e requisiva gli stabilimenti siderurgici. Un evento che segnerà il de profundis per uno dei primati produttivi del sud Italia. I nuovi padroni ben presto si dimostrarono assai meno caritatevoli di quelli appena scalzati. Estinte le attività proto-industriali, Ferdinandea nel corso degli anni avrebbe conosciuto il suo definitivo canto del cigno. Nel 1874 l’immensa tenuta diventava proprietà del garibaldino Achille Fazzari, che l’acquistava all’asta, insieme agli stabilimenti di Mongiana ed a diversi beni accessori. Nel corso degli anni “don Achille” fece di Ferdinandea la sua ricca e lussuosa dimora, nella quale, tra gli altri, soggiorneranno il fondatore del “Il Mattino di Napoli” Edoardo Scarfoglio e la di lui moglie, Matilde Serao. E proprio la scrittrice partenopea nel settembre del 1886, su “Il Corriere di Roma”, accostava Ferdinandea al leggendario “castello incantato di Parsifal”. Fazzari aveva fatto della sua dimora una sorta di eterogeneo e caotico museo. Nel suo “ Tra le foreste di Ferdinandea. Casa Fazzari”, pubblicato a Prato nel 1906, il Cunsolo parla di «opere d’arte acquistate all’asta, insieme ad altre di dubbia provenienza: una nutrita serie di vasi di terracotta ed anfore greche, il sarcofago di marmo di Ruggiero il Normanno sottratto ai ruderi della certosa e, probabilmente proveniente dalla cattedrale di Mileto, un busto dello stesso personaggio ed altri minori che circondavano il sarcofago, il busto di Napoleone fatto dal Canova e regalato dallo scultore a sua sorella Paolina, il letto in cui Napoleone dormiva all’Elba, un disegno di Raffaello Sanzio, due preziosi organi del Barbetta, uno stupendo mobile ad intarsio stile Luigi XV ed una collezione di Pergamene antichissime». Oltre alla “cura” del patrimonio artistico, a Ferdinandea, Fazzari, intanto divenuto deputato, aveva riavviato, dopo averla riammodernata, la vecchia segheria borbonica che, nel 1892, era stata dotata di una dinamo elettrica necessaria a movimentarne le attrezzature. E proprio nei boschi di Ferdinandea sorgerà nel 1910, ad opera di Cino Canzio compagno della figlia di Fazzari, Elsa, la prima azienda idroelettrica della zona. Nel corso degli anni la proprietà passerà più volte di mano, tanto che delle attività produttive non sopravviverà che l’attuale fonte della Mangiatorella e l’industria boschiva, peraltro privata dal valore aggiunto costituito dalla lavorazione del legname. Per il resto, un lento inesorabile declino testimoniato dagli immensi capannoni abbandonati ed ormai cadenti, dagli alloggi per gli operai e dal nucleo centrale sul quale incombe inesorabile la scure del tempo. I tanti visitatori, che ancora oggi si avventurano sui luoghi che potrebbero rappresentare il fulcro di un percorso organico di archeologia industriale, subiscono la stretta al cuore di chi vede lentamente svanire il patrimonio di una regione che stenta a comprendere che lo sviluppo turistico passa dal recupero della sua storia.
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