Domenica, 03 Novembre 2024 08:30

Il paradosso dei "borghi" calabresi, tanti spot ma pochi diritti

Scritto da Sergio Pelaia
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La stortura è già nell’appellativo che ormai è di larghissimo uso e consumo: il termine borgo, in origine, indicava in generale un luogo fortificato o comunque un aggregato di case «nel suburbio o nello spazio – riporta l’enciclopedia Treccani – tra una più antica e angusta cerchia di mura e una nuova difesa (mura o fossato)». Ma anche rifacendosi a una definizione fornita dal Ministero della Cultura nel 2017 nell’apposita direttiva per “l’anno dei Borghi d’Italia”, vi rientrerebbero i Comuni «con al massimo 5000 abitanti caratterizzati da un prezioso patrimonio culturale». Già basterebbe questa pur generica indicazione a fare dei distinguo e a chiamare alcuni luoghi con il loro nome, cioè paesi, il che rimanderebbe non solo al luogo fisico ma soprattutto alla comunità che lo abita. Ma il paradosso dei “borghi” non è certamente da circoscrivere a questione da feticisti del linguaggio.

Quella dei piccoli Comuni delle aree interne è infatti di una realtà spesso drammatica che a fronte di anni di strategie nazionali, “spot” istituzionali e retorica elettorale deve piuttosto fare i conti con la mancanza di servizi pubblici essenziali. Senza i quali, pur invocando all’infinito il turismo – di nicchia, esperienziale, religioso, sportivo, di mare, di montagna o in qualsiasi altra declinazione – come manna per risollevare la fragile economia di queste comunità, la vita in questi luoghi sarà sempre meno vivibile già per chi ci è nato e cresciuto, figurarsi per chi ci arriva da visitatore.

L’ultima proposta che difficilmente invertirà questa triste parabola l’ha presentata, di recente, il consigliere regionale del M5S Davide Tavernise: una legge che preveda «l’istituzione della Rete dei Borghi della Calabria». Quattro articoli, una pagina e mezza di testo e altrettante di relazione illustrativa, al fine di «promuovere e valorizzare lo sviluppo turistico sostenibile, il patrimonio storico, artistico, paesaggistico e culturale dei piccoli comuni calabresi, nonché l’immagine del territorio regionale», demandando alla Giunta il compito di stilare le Linee guida per l’adesione.

Nulla di negativo, ovviamente, ma forse neanche di realmente risolutivo. Come non lo sono stati finora i tanti bandi della Regione che a suon di tantissimi euro provenienti dall’Unione europea – solo quello per la «valorizzazione dei borghi» a valere sul Fondo di Sviluppo e Coesione ha una dotazione di 100 milioni – mirano a promuovere, con parole identiche usate nella proposta di legge di Tavernise, «in un’ottica di nuove strategie turistiche i borghi della Calabria, custodi di storia, identità e tradizioni, stimolando proposte e progetti che vengono direttamente dai territori».

In un apposito opuscolo redatto nel 2020 sempre dalla Regione con il brand “Calabria straordinaria” si annoverano i Comuni calabresi che rientrano tra “Borghi più belli d’Italia”, le “Bandiere Arancioni” e i “Borghi Autentici d’Italia”, oltre ovviamente ai “Borghi delle minoranze linguistiche” e ai “Borghi del Sacro”. Vi sono elencati posti davvero bellissimi, ricchi di storia e di cultura. Ma spesso poveri di diritti, di sanità pubblica e di servizi essenziali. Magari preda di speculazioni che ne deturpano ambiente e paesaggio.

E se qualcuno si chiede come mai questi luoghi non si ripopolino di forestieri ingolositi dai tanti incentivi spot annunciati ciclicamente, nessuno invece si interroga sul perché chi ci è nato e cresciuto, amandoli visceralmente, è sempre più spesso costretto ad allontanarsene per poter vivere dignitosamente.

(articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud)

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