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Il Prisma (rubrica fotografica settimanale a cura di Filippo Rachiele).
La copertina della rubrica si intitola "Pianoforte".
"C'è a chi piace suonare, a chi cantare e a chi scrivere libri a me piace scattare foto..."
Questa settimana una foto dell' amico Biagio Tassone.
Con la morte di Bruno Alfonso Pelaggi (“Mastru Brunu”) avvenuta il 6 gennaio 1912, esattamente un secolo fa, scompariva una delle voci più potenti e originali della poesia dialettale in Calabria. Pelaggi era nato a Serra San Bruno il 15 settembre 1837 da Gabriele e Giuseppina Drago e aveva trascorso una vita povera di avvenimenti esteriori, se si eccettuano l’arruolamento a 17 anni nella fanteria borbonica, l’incarico di consigliere comunale nella stessa Serra e, probabilmente, la nomina a giurato in un processo a Catanzaro. Come molti altri serresi del suo tempo, apparteneva al ceto degli artigiani (“Mastranza di la Serra”, li definiva un noto strambotto popolare) avendo lavorato tutta la vita come scalpellino, certamente con una buona conoscenza del mestiere, se è vero che Mastro Bruno fu uno degli artigiani locali che contribuirono, alla fine del XIX secolo, alla ricostruzione della Certosa gravemente danneggiata dal terremoto settecentesco. Il mestiere svolto da Pelaggi, insieme con il fatto che abitualmente dettava i propri componimenti poetici (“li stuori”) alla figlia Maria Stella, contribuirà in modo determinante a coniare il luogo comune di “poeta-analfabeta” – altre volte declinato sotto la forma più descrittiva di “poeta-scalpellino” – che si era impadronito delle tecniche di versificazione grazie a una sorta di “sapienza” istintiva, di intuizione poetica naturale, indipendente da qualsivoglia formazione culturale. Sicuramente, Mastro Bruno non pubblicò mai nulla e le sue poesie si trasmisero in forma orale e mediante manoscritti, non autografi e forse non di unica mano, circostanza che autorizza a parlare di una tradizione per diversi aspetti malsicura. Anche per questo motivo esiste nella storia della letteratura calabrese un problema-Pelaggi – com’è autorevolmente attestato dagli studiosi che hanno avuto modo di occuparsi del poeta (da Umberto Bosco a Pasquale Tuscano, da Pasquino Crupi a Sharo Gambino e Antonio Piromalli) – di cui l’occasione celebrativa deve spingere a indicare sinteticamente le caratteristiche essenziali.
La questione appare evidente quando si analizza lo stato delle fonti, sulle quali le edizioni disponibili delle poesie pelaggiane non aiutano a chiarificare i numerosi dubbi in maniera definitiva. Intanto, se si esclude una raccolta curata da Sharo Gambino nel 1973 che non può considerarsi una vera e propria edizione delle “storie” poetiche di Pelaggi, il lettore può rivolgersi a quattro diverse pubblicazioni: “Le poesie di Mastro Bruno” (a cura di Angelo Pelaia, Catanzaro, Tip. FATA, 1965); “Tutte le poesie” (a cura di Biagio Pelaia, Serra San Bruno, Tipo-Legatoria Mele, 1976); “Poesie” (a cura di Giampiero Nisticò, Chiaravalle Centrale, Edizioni Effe Emme, 1978) e “Li stuori (Le poesie)” (a cura di Biagio Pelaia, Serra San Bruno, T. L. M., 1982). Ma, atteso che tali diverse edizioni si presentano tutte come sillogi complete delle poesie di Mastro Bruno, quel che colpisce subito, già a una prima comparazione, è il differente numero di componimenti raccolti: ventuno nel volume del 1965, venticinque in quello del 1976, rispettivamente ventisei e ventinove nelle ultime due. Vale a dire che dal 1965 al 1982 hanno fatto il loro ingresso nel corpus poetico pelaggiano ben otto nuove composizioni tra poesie e frammenti. Non solo, ma delle medesime poesie si possono, talvolta, notare, tra un’edizione e la successiva, aggiunte di versi e strofe anche in misura significativa. Per esempio, il componimento “La pigghiata di Zzimbariu” nell’edizione curata da Biagio Pelaia nel 1976 consta di 36 versi, che diventano 69 nell’edizione del 1982 dovuta allo stesso curatore. Analogo il “destino” della poesia “Amici di Tibberiu”, che appare per la prima volta nell’edizione Nisticò del 1978, ma con le sole prime sette strofe, alle quali si aggiungono ulteriori diciotto strofe, per un totale di venticinque, nell’edizione Pelaia del 1982. Per non dire delle varianti che è possibile osservare e per le quali può capitare che non si fornisca a loro giustificazione un riscontro documentale, ma, come accade in un verso della poesia “A ‘Mbertu Primu”, ci si limiti a notare che “il concetto si rende meglio” con una nuova espressione che modifica la lectio sino a quel momento trasmessa. Il fatto è che, come si evince dalle suddette edizioni delle poesie pelaggiane, le fonti di questi componimenti si riducono all’incerta tradizione orale e a imprecisati manoscritti intorno ai quali non sussiste l’accordo degli stessi curatori. Basti pensare che Angelo Pelaia, a cui è dovuta la prima edizione dei versi di Mastro Bruno, si riferisce come fonte soltanto a un quaderno scritto nel 1915 (tre anni dopo la morte di Pelaggi) da un’amica della figlia del poeta, mentre Biagio Pelaia, nella premessa alla sua edizione del 1976, dichiara di non condividere tale posizione perché, a suo dire, non sarebbe possibile escludere la grafia della figlia medesima, considerato che di questa non sono pervenuti autografi. Con la conseguenza, in difetto di una tradizione manoscritta sicura sull’intero corpus delle poesie, che i curatori talvolta si affidano esclusivamente, per la ricostruzione del “dettato” del poeta, a ipotesi di tipo logico o a considerazioni di natura linguistica o a interpretazioni motivate dal contesto storico-sociale. D’altra parte, non mancano nemmeno perplessità e interrogativi in merito all’attribuzione di tali poesie, se Giampiero Nisticò ne ha riconosciuto come inequivocabilmente attribuibili a Pelaggi ventidue, ne ha espunto in modo categorico altre tre (tra cui la notissima “Alla Vergini Maria”), mentre ha ammesso tra i componimenti autentici la celebre “Alla luna”, rivelando, però, per il solo fatto di averne discusso, l’esistenza di un “retroterra” problematico riguardo a tale attribuzione. Quel che si può dire con certezza è che la pubblicazione della prima edizione delle poesie ha certamente incoraggiato ulteriori “scoperte”, promuovendo, in qualche modo, anche il “recupero” di una parte della tradizione orale per molto tempo rimasta nell’oblio. Proprio per questo, sembra oramai necessario auspicare un’edizione critica, al momento lontana da venire, che provi a sciogliere i diversi nodi attualmente rimasti irrisolti.Parallelamente, si renderebbe indispensabile una seria ripresa degli studi intorno al poeta, anche per chiarire le controverse questioni critiche e interpretative che scaturiscono dai suoi versi. Prima tra tutte quella relativa al rapporto con il ministro di origini serresi Bruno Chimirri (1842 – 1917), apparso a molti, in particolare nel componimento “Don Bruninu Chimirri e li sirrisi”, esageratamente adulatorio: “Don Bruninu Chimirri è galantuomu, / ca di nudhu giammai si vindicàu. / Vui lu sapiti tutti quant’è buonu / e quant’offesi si dimienticau; / e lu sapiti ch’allu sulu nuomu / l’Italia tutta la frunti ‘nchinau / […] Jio poeta non su’, ca scarpidhìnu, / ma dicu sempi «Viva Don Bruninu!»”. Circostanza che è sembrata ancor più degna di nota se si considera che si tratta del medesimo poeta il quale, con accenti lirici indubbiamente più alti rispetto all’occasionale poesia dedicata al Chimirri, ha dato voce alla condizione storica dei calabresi nei decenni successivi all’unificazione nazionale e nella fase di passaggio tra Otto e Novecento, presentandosi, agli occhi della critica, come autore di una poesia di contestazione che non soffre di timori reverenziali nel prendersela con ministri e deputati o nell’alzare il proprio grido di dolore a Dio (“Non bidi, o Patritiernu, / lu mundu mu sdarrupi, / ch’è abitatu di lupi / e piscicani? / Priestu, mina li mani! / Vidi cuomu mu fai, / càcciandi di ‘sti guai, / manneja aguannu”). Da qui un giudizio critico che vuole Mastro Bruno poeta autentico soprattutto quando è poeta della protesta, riconducendo nella cornice del bozzettismo, della satira arguta e dei componimenti d’occasione quasi tutto il resto della sua produzione poetica. Un giudizio, probabilmente, da riconsiderare con attenzione, non certo per rovesciarlo nel suo contrario, ma per restituire Pelaggi a una dimensione meno unilaterale e più piena, quella della poesia senza ulteriori specificazioni e aggettivi.
(articolo pubblicato su Il Quotidiano della Calabria)
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