Mercoledì, 20 Dicembre 2017 08:56

La provocazione di Paolillo: «Non tagliate quelle erbacce. Nascondono i rifiuti»

Scritto da Redazione
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Riceviamo e pubblichiamo

Lo so, è probabile che non ci abbiate fatto caso, ma se guardate per un attimo al di là dei vetri della vostra auto, mentre percorrete ad esempio la Statale 18 da Vibo a Pizzo, o se andate in direzione Mileto, o se attraversate a vostro rischio e pericolo la mulattiera che dal bivio per Maierato scende fino al paese dei gelati, ai bordi della strada noterete una striscia a volte ininterrotta di spazzatura, una sorta di discarica nastriforme, con punti di particolare accumulo negli slarghi o in aree panoramiche.

A risaltare, specie quando gli ultimi raggi del sole li fanno risplendere, le onnipresenti bottiglie di plastica e di vetro, ma non manca davvero nulla del variegato campionario della modernità consumistica che invoglia a usare e gettare: un’esortazione che da queste parti si è ben contenti di prendere alla lettera. Per non parlare delle buste o dei sacchi condominiali strapieni di pattume lasciati ad accumularsi in compagnia di qualche vecchio materasso, in attesa magari del prossimo incendio estivo che possa incenerire tutto, con gli alberi e gli arbusti ancora sopravvissuti. Che si tratti di cittadini modello che, di fronte al fallimento della raccolta differenziata, si affidano speranzosi all’eterno ciclo campestre del fuoco purificatore? Cosa non si farebbe per salvare il decoro del proprio campanile! Anche a costo di depositare la “rumenta” nei territori limitrofi.

Ebbene, poiché da tempo ho smesso di credere che i calabresi possano cambiare testa, sostanzialmente perché sono davvero uno dei popoli più intelligenti e pragmatici della storia (avendo appreso dalla nascita che lo status quo dell’individualismo strafottente ha i suoi innegabili vantaggi), mi permetto di lanciare un appello agli enti che, con grande impegno, ogni anno in estate si prodigano per tagliare le cosiddette erbacce dai bordi stradali. Per favore, lasciate perdere! O, quanto meno, recidete gramigne e compagnia ruderale ad un’altezza tale da poter nascondere quello che per noi è diventato paesaggio, ma che probabilmente a qualche turista potrebbe sembrare, che so, un segno di inciviltà o di disprezzo dei locali verso la loro terra. Quella stessa che gli indigeni, nei depliant o su internet, giurano di amare tanto, perché è “troppo bella”, perché qui si mangia bene (mentre altrove fa tutto schifo), o perché ha dato i natali a  Cassiodoro, Campanella, Telesio e Corrado Alvaro (suscitando l’invidia di chi sta in Toscana, in Veneto,  in Sicilia o dappertutto in Italia, dove da secoli, si sa, imperversano degrado civile e ignoranza, e alla quale, dimenticavo, abbiamo dato persino il nome).

Attenzione, non sto dicendo di impiegare gli operai cantonieri per ripulire i bordi delle strade dai rifiuti! Nossignori!

Che senso avrebbe infatti rompersi la schiena in piena stagione quando, dopo poco tempo, tutto è destinato a tornare come prima, o peggio? Sarebbe come condannarli ad una inutile e dispendiosa fatica di Sisifo. Per non parlare del problema che si porrebbe nel momento della destinazione finale di tutto quel ben di Dio. Per altri versi è un po’ come quando si rifanno le strisce pedonali per far parcheggiare più auto, o per far capire ai pedoni calabresi dove si devono fermare prima di dare la precedenza agli automobilisti in transito.

L’ideale insomma sarebbe quella di eliminare solo le parti vegetali che ostacolano la circolazione, risparmiando tutto il resto, secondo l’antico detto secondo cui: “occhio non vede, cuore non duole”.

E’ ovvio, ma giova ripeterlo, che le parti anatomiche a cui mi riferisco non apparterrebbero ai protagonisti  abituali del lancio dal finestrino o del deposito selvaggio di monnezza, ma a un ipotetico viaggiatore forestiero  che potrebbe concludere con Norman Douglas, a cento anni di distanza, che qui lo sporco, il brutto, il degrado, non vengono  percepiti, cioè  non sono “visti”, essendo le strade, le  piazze, le scuole, come i giardini e tutto ciò che è pubblico, cosa di tutti e quindi di nessuno.

E se per caso, ma dubito, un fanciullo sensibile all’invito della maestra a non gettare niente per strada, dovesse ricordarlo a babbo o mammà al volante, basterà un atavico “ti ‘ndi futti!” per reprimere sul nascere quell’ingenuo anelito di civiltà.

Pino Paolillo

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