Sabato, 25 Dicembre 2021 07:30

NUVOLE* | Il Natale (perduto) di Sharo Gambino. La madre di Alvaro e le ritualità smarrite

Scritto da Tonino Ceravolo
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Sharo Gambino (autoritratto, 1955) Sharo Gambino (autoritratto, 1955)

Il Natale letterario di Sharo Gambino ha inizio nella casa della madre di Corrado Alvaro, a Caraffa del Bianco, dove lo scrittore giunge nel dicembre del 1963 accompagnato dall’altro figlio, il sacerdote don Massimo. Alvaro era morto da sette anni e Gambino va alla scoperta del piccolo mondo di memorie che la madre dello scrittore conserva. Custodite in sacchetti di cellophane queste memorie la riportano all’infanzia di Corrado e tra esse c’è “un Bambino Gesù, fatto di creta e dipinto d’un rosa che si va scurendo”, un Bambinello, dice don Massimo a Gambino, che contribuì alla felicità infantile del fratello, mai felice se non nei suoi primi dieci anni di vita trascorsi a San Luca. Nello straordinario articolo che Gambino dedica a questo incontro (lo si può leggere in Calabria ieri e oggi. Reportage storico-letterari, MIT, 1968) riemergono le “infinite pagine” che Alvaro aveva consacrato al Natale, ma è soprattutto il filo rosso dei ricordi della madre a dipanare il sentimento alvariano di questa festa, attesa con ansia e che era per lui “più grande di quanto lo fosse per gli altri”: “La sera della vigilia […] faceva il pretino: gli mettevamo sulle spalle una tovaglina e lui portava sul presepe codesto Bambinello, mentre noi altri […] cantavamo una ninnarella composta da mio marito e che ancora è in uso a San Luca”. Il ricordo del Natale in Calabria gli ritornava “struggente”, annota Gambino, quando si era trovato nel collegio gesuita di Frascati, da dove, il 26 dicembre del 1905, aveva inviato una lettera al padre parlando dei presepi che lì si facevano e della sua gioia per la partita a tombola, che aveva preceduto la messa di mezzanotte al cospetto del “bambino ch’era grande nella culla dorata”. Mai più Alvaro avrebbe ritrovato l’atmosfera del Natale calabrese nei tanti Natali che, da giornalista, avrebbe trascorso nelle capitali europee né l’avrebbe recuperata a Roma, in cui “cercava di riprendersi un po’ di quel sogno perduto” preparando il presepe “coi pastori che una signora di Gioiosa Jonica, la scultrice Incorpora, gli aveva fatti e spediti in dono”. Un’incancellabile nostalgia del Natale di casa quella di Alvaro, a cui apparteneva anche l’episodio triste di un anno nel quale il padre, senza attendere Corrado, aveva disfatto da solo il presepe nel giorno dell’Epifania, togliendogli il privilegio di “levar dalla grotta il Bambino e riporlo in uno scatolino fino all’altro Natale” e lasciandolo, così, sbigottito, attraversato da un pianto inconsolabile, con la sensazione di aver subito un torto irrimediabile.

E “nostalgia” è il termine che Gambino riprende nella sua introduzione a Natali ‘i ‘na vota. Antologia di poesie di Natale in dialetto calabrese (Franco Pancallo Editore, 2003), per proiettarlo sugli ipotetici giovani i quali chissà se cinquant’anni dopo, trovandosi in mano questa silloge, avrebbero avuto modo di avvertirla pensando ai Natali passati. E sì che il Natale, intanto, si era trasformato, come a Gambino suggeriva Vito Teti, in una festa che ormai non celebrava più la nascita e il Rinnovamento, bensì la quotidianità e la vita di sempre, ribadendo con la sua ritualità consumistica quello che è possibile fare e avere in ogni altro periodo dell’anno. Tanto che per il recupero di quel Natale, in cui, di nuovo, faceva velocemente capolino la madre di Alvaro citata per le usanze di San Luca, diventava necessario radunare in soccorso i versi e le strofe di quella poesia dialettale della Calabria alla quale altre volte  – si pensi, per fare un solo esempio, al volume Cuviernu puorcu, latru e camburrista. La poesia dialettale di protesta in Calabria, Cittàcalabria Edizioni, 2005 – Gambino aveva fatto appello per raccontare la regione. E ritornava dentro la pagina, il Natale, con il suo senso dell’attesa, in un’esplosione di cose che Gambino enumerava, quasi catturato dal fascino dell’elenco: “Era il freddo intenso […], le tombolate, il sette e mezzo o la stoppa con le carte napoletane, attorno alla tavola su cui si era cenato, a portata di mano ancora il vino novello, i fichi con le noci, le castagne infornate, le melegrane, le arance e i mandarini […]. La giurgiulena o cumpiettu (impasto di miele d’api, sesamo e mandorle, lasciato a raffreddare sul tagliere, casalinga parente del torroncino), onnipresenti sul mercato i bastoncini di buone mandorle rivestiti di cioccolato di Soriano e di Cardona, di Bagnara Calabra […]. Parente povero l’impasto di arachidi abbrustolite e zucchero. Le susumelle, le pittepie o, a seconda del luogo, le pittenchiuse, le pitte di San Martino, i petrali, la pignolata … le zeppole”, che si mandavano ad amici e parenti e che spingevano i ragazzini a gareggiare “in vista del sicuro regalo in soldini, centesimi, razze, nichel, mezza lira un sogno, una lira poi … da investire nel gioco a tombola”. Cose del passato, appunto, in tutto ciò che rimandava ai riti della casa nel periodo natalizio ancora non entrato nell’epoca del trionfo dei consumi, che al passato appartenevano insieme con altri elementi essenziali delle culture popolari: il gurzillu appeso al collo dei bambini, la strina, la cattivissima juovina, temuta ladra della strina. Di questo Natale ‘i na vota Gambino si faceva cartografo e archivista, raccogliendo il suo lascito nella tradizione poetica che aveva avuto in Giovanni Conia il suo momento inaugurale, per evolversi nel racconto in versi di Vincenzo Padula, Giovanni Patari, Michele Pane e Vittorio Butera, per arrivare a Salvatore Filocamo e Franco Blefari.

Insomma, è di Natali perduti che parlano questi testi usciti a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro e che sembrano avere proprio nella coscienza di tale smarrimento un legame forse non immediatamente visibile, ma sotterraneo e profondo. Perduto è il Natale “privato” della madre di Alvaro, associato per sempre all’irrecuperabile, se non nella memoria, gioia infantile del figlio Corrado al cospetto del Bambinello e delle figurine del presepe, come perduto è il Natale collettivo di cui dicono le parole desuete e le ritualità del tempo natalizio incardinate nella tradizione poetica calabrese. Parole che scompaiono o scompariranno (e Gambino citava, a mo’ di esempio, a vrascera e a lumera), riti dai quali è stata sottratta ogni sacralità e che sono diventati quel Natale di 365 giorni all’anno che essendo sempre Natale non è mai Natale. Torna a proposito, come per chiudere il cerchio, proprio una densa considerazione di Corrado Alvaro, che anche Gambino sottoscriverebbe senza incertezze: “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”.

*Nuvole è una rubrica del Vizzarro a cura di Tonino Ceravolo, storico, antropologo e scrittore

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