Nella Piana di Gioia Tauro sembra tutto normale. Tutto tranquillo, all'apparenza. Come ogni anno, l'estate si dilata e le temperature rimangono più che gradevoli fino ad autunno inoltrato. Come ogni anno, gli alberi che si riempiono di frutti colorano di verde e di arancio le pianure vaste e fertili che circondano i centri abitati. E come ogni anno, ci si prepara alla stagione del raccolto. Fin da settembre, però, è chiaro che c'è qualcosa di diverso rispetto al passato. Si è detto e scritto tante volte che qui, dopo la rivolta e gli scontri del gennaio 2010, non è cambiato nulla, che tutto è rimasto come prima, ma ciò è vero solo in parte. È cambiato molto negli atteggiamenti dei cittadini del posto e dei migranti. Il precedente fa paura, induce tutti alla prudenza.
La novità del 2013, però, è un'altra, e preoccupa non poco: ancora prima che cominci la raccolta di arance e mandarini, le tende e gli accampamenti di fortuna in cui cercano rifugio i lavoratori africani sono già tutti pieni. Il fenomeno è nuovo e non fa presagire nulla di buono. Moltissimi africani che già risiedevano in Italia da tempo, nelle regioni “ricche” del Nord e del Centro, a causa della recessione economica che ha investito migliaia di imprese, sono rimasti senza lavoro. Ormai dovunque, nella Penisola, si conosce, anche solo per sentito dire, la realtà – o meglio la percezione di essa – di Rosarno, dunque tutti sanno che nel periodo della raccolta, che arriva fino a primavera, qui di lavoro ce n'è. In verità si sa che è un lavoro sottopagato, in nero, al soldo di caporali senza scrupoli disposti a elemosinare non più di un euro per ogni cassetta contenente dai 15 ai 20 chili di agrumi raccolti. Si sa anche, però, che la fame non lascia molta scelta. Così già da un paio di mesi ogni giorno arrivano gruppi di cinque, sei, anche dieci persone che, sebbene la stagione non sia ancora iniziata, almeno provano a precedere gli altri e ad occupare un posto nella tendopoli o nei casolari diroccati.
A San Ferdinando, ad esempio, attualmente ci sono circa sessanta tende fornite dal dipartimento del Soccorso pubblico del ministero dell'Interno. Sono tutte già occupate, non c'è n'è nemmeno una vuota. Stabilire quante persone stiano alla tendopoli, oggi, non è cosa facile, ma di certo sono molte di più delle 250 per cui questo intervento era stato pensato. L'anno scorso si è arrivati a quasi duemila occupanti, quest'anno in questo senso le premesse non sono rassicuranti. C'è l'acqua, ci sono alcune fontanelle sparse per il campo, ma non c'è la corrente elettrica, oltre a mancare ogni genere di prima necessità e a persistere una condizione generale disumana. A pochi metri ci sono i resti di un'altra tendopoli, per la quale pare sia stato speso addirittura un milione di euro e che è stata rasa al suolo con delle ruspe che, in concreto, hanno macinato e lasciato per terra ciò che rimaneva sia delle tende che delle decine di baracche costruite l'anno scorso con materiali di fortuna, plastica o eternit. Il risultato è che oggi questo costoso intervento dello Stato si è trasformato in un'enorme, surreale discarica a cielo aperto, con una nuova tendopoli che è stata costruita pochi passi più in là.
Molti dei ragazzi che sopravvivono in questo inferno quotidiano non vedono di buon occhio l'arrivo dei giornalisti. Ormai ci avrebbero anche fatto il callo – spiega uno dei più “anziani” – ma hanno capito che neanche il clamore mediatico li aiuta a migliorare la loro condizione e, soprattutto, non sopportano che i loro familiari, magari residenti a Bergamo o a Napoli, possano scoprire come vivono dalle pagine di qualche giornale. Superata la diffidenza, però, non rinunciano a raccontare le loro storie, riescono anche a sorridere, ma alla fine di ogni discorso si capisce che l'unica cosa che vogliono è riuscire, un giorno, ad andare via da Rosarno. È un circolo perverso, lo sanno tutti, eppure sono pochi quelli che – come gli attivisti di Sos Rosarno – provano a realizzare insieme agli africani un'economia sostenibile, umana. Mentre scende la sera qualcuno passa vicino all'accampamento. Sono giovani, del luogo, su macchine di grossa cilindrata: è evidente che vengono a controllare, ma non si capisce che cosa, ed è altrettanto palese che non sono della polizia. Allontanandosi dalla tendopoli, per strada, ci sono prostitute a decine, ma è uscendo dal centro abitato che si incontrano i veri invisibili. Sono quelli che non hanno posto nelle tende, che si organizzano a gruppetti di 5-10 persone – ma arrivano anche al doppio – e vanno ad occupare baracche e casolari diroccati – uno di questi è proprio accanto alla famigerata fornace “Tranquilla” di San Calogero – o, ancora peggio, si costruiscono – come ha fatto un gruppo di sudanesi – delle capanne di fortuna nascoste tra la boscaglia.
Questa è la situazione: una calma innaturale che copre un sostrato di alienazione e violenza, di sfruttamento e sopraffazione, di povertà e odio. È su queste fondamenta che poggia la “normalità” di Rosarno, di San Ferdinando, della Piana. E tutti sanno che non potranno reggere a lungo.
foto Salvatore Federico
(servizio pubblicato sul numero 124 del Corriere della Calabria)