Lunedì, 26 Gennaio 2015 13:13

La crisi della politica: i grandi elettori ed i piccoli cittadini

Scritto da Salvatore Albanese
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Fra tre giorni, il prossimo 29 gennaio, il Parlamento in seduta comune, integrato dai rappresentanti delle Regioni, si appresterà ad eleggere – immaginiamo con non poche sofferenze – il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana.

Per l’occasione a Montecitorio svetterà alta l’effigie di Serra San Bruno, perché nella triade che andrà a rappresentare la Calabria c’è anche il consigliere regionale di Forza Italia, Nazzareno Salerno, pronto a raggiungere a Roma un altro figlio illustre di questa terra, il deputato Bruno Censore, esponente invece del Partito democratico. Entrambi serresi doc, entrambi ex sindaci di Serra San Bruno, spediti adesso nell’Olimpo della politica che conta per contribuire alla scelta del prossimo Capo dello Stato. Il giusto riconoscimento, forse, a frutto di un percorso che nel tempo li ha visti crescere quasi passo a passo: un micro “patto del Nazareno” all’ombra della Certosa, verrebbe da dire. Partendo da questo, ed evitando di scadere in letture qualunquistiche, servirebbe – visto il particolare momento storico – quantomeno analizzare le cause dell’enorme scollamento che si è generato fra politica e cittadini, dalle nostre parti e non solo.

Le parabole politiche, seppur gloriose, non sempre si misurano in crescendo, anzi, a volte sono costrette a raffrontarsi con punti bassi che rischiano di metterle in discussione o quanto meno di rallentarne l’avanzamento. Incidenti del mestiere legati magari ad un vuoto di rappresentanza accusato dai cittadini e che culmina con la sempre più diffusa “allergia da partito politico”. Un’avversione spesso silenziosa ed ordinata, quasi mai rappresentata dalle rivolte sociali. Un fenomeno dilagante, che qualcuno – forse per comodità lessicale – continua a definire “antipolitica”, ma di cui ogni volta si discute con grande fretta e confusione, in particolare quando si inizia ad entrare nel merito delle potenziali cause e dei relativi effetti. Fatto che spinge a pensare che le letture generiche, quelle dettate appunto dalla comodità lessicale, a volte servono solo a tentare di nascondere il dissenso. A sminuirlo.

Prendete ad esempio le ultime regionali. Il governatore Mario Oliverio ha vinto con una percentuale definita da molti «plebiscitaria», il 61% dei voti, che però in termini assoluti si traduce nel consenso di soli 400mila cittadini. Insomma, il presidente della Regione Calabria è stato eletto con il voto favorevole del 20% delle persone che abitano in Calabria. Due cittadini su dieci hanno quindi scelto Oliverio, due hanno espresso il consenso a favore di altri candidati, mentre i restanti sei non sono andati a votare. Qual è il dato plebiscitario? Una delle province in cui maggiormente è emersa la repulsione da cabina elettorale è stata quella di Vibo Valentia, dove l’affluenza alle regionali ha toccato il minimo storico. Chissà se di questo hanno mai discusso i nostri grandi elettori. Perché forse dovrebbe essere il primo interrogativo di chi oggi fa politica, anche se magari può risultare più utile continuare a far ragionare sul chi ha vinto e chi ha perso, su chi è il buono e chi il cattivo, su chi è quello che puzza e chi quello che invece profuma di più.

A seguito di tutte le elezioni si tende sempre ad eludere la discussione sull’assenteismo ormai diffuso. Ci si affanna ad aggirare il problema. Perché se fino agli anni ‘90 votava il 65% della popolazione e oggi vota il 40%, allora vuol dire che la cosa tra qualche decennio potrebbe trasformarsi in una questione fra pochi intimi. D’altronde bastava stare a contatto con la gente, nei bar, nei saloni dei parrucchieri, all’ufficio postale, al supermercato, farsi una passeggiata con le persone che più si conoscono, con chi magari è sempre andato a votare, per sentirsi dire «io questa volta non ci vado». E non si tratta di propulsione antipolitica: è gente – la larga maggioranza – che si è semplicemente rotta le palle. Come non avvertire allora il peso, sempre più grande, della solitudine dei cittadini? A quale indirizzo, anche solo per farsi ascoltare, dovrebbero andare a spiegare le loro ragioni, personali o collettive, giuste o sbagliate, banali o di estrema sopravvivenza? Forse sanno già che nessuno li aspetta e nessuno li cerca?
In questo non c’è antipolitica, al contrario c’è una domanda gravemente insoddisfatta di partecipazione. Perché, semplicemente, oggi i luoghi per partecipare, per poter decidere, per poter utilizzare la propria intelligenza, non esistono più. Non esiste più, da troppo tempo, l’incontro con cinquanta o sessanta persone tutte insieme, eccetto che nei giorni della campagna elettorale. Non esiste l’ascolto, magari sgradevole, delle opinioni di cittadini “incompetenti” o non invitati. Ma se manca la gente il partito è nulla, perché è come se mancasse il vento per le bandiere.

È proprio la partecipazione il punto che la politica dovrebbe riprendere. Perché le domande che realmente si celano dietro alla tornata elettorale in cui si è registrata l’affluenza più bassa della storia di questa regione sono chiare: «La discussione sui problemi di questa terra a che punto è?» O meglio, «qualcuno ne sta discutendo?». Il problema reale è quindi che i drammi delle persone non vengono affrontati e, di conseguenza, le persone non si sentono rappresentate da chi, invece, dovrebbe rappresentarle. E la gente non si sente rappresentata perché le cose, invece che cambiare, stanno peggiorando. Le questioni sociali restano inascoltate. Non vengono affrontati i problemi del lavoro, dell’economia. I cittadini rimangono da soli, a combattere tra di loro, l’uno contro l’altro. Perché in definitiva non conta quello che si dice, ma conta quello che si fa. E se andiamo a misurare quello che è stato fatto in questi anni, ci troviamo di fronte ad una macelleria sociale senza precedenti. Si stanno cancellando diritti, tutele, si sta tornando alle guerre fra poveri, alla competizione fra persone che per vivere e lavorare rivaleggiano con i propri simili. Siamo tutti disposti a mercificarci ad un euro in meno pur di riuscire a fregare gli altri. In realtà il lavoro, il poter vivere dignitosamente, dovrebbero essere un diritto di tutti, non un qualcosa di cui avvantaggiarsi a discapito di qualcun’altro.
Ed è allora che l’attivismo si sposta, scappa fuori dai partiti. Il cittadino si allontana da qualsiasi bandiera, indipendentemente dal colore. Nessuno parteggia perché sembra spenta ogni fiducia e l’antagonismo acquisisce una forma fredda e diffusa non di confronto, ma di assenza. La politica non cerca relazioni o rapporti, eccetto quelle che si esauriscono in una quantità sempre più irrisoria di consensi. Di contro, la solitudine non porta bene ai cittadini, che anzi capiscono di essere tagliati fuori e si allontanano sempre di più. I leader di partito si scostano quasi istintivamente dalla loro base per non correre il rischio di violare l’impegno a non agire. I cittadini se ne vanno, scappano via dal profondo entroterra meridionale. Allora, da dove nasce la crisi della politica? Quando e come finisce? A conclusione di quella che non vuole essere solo una critica, ma piuttosto una chiamata, nell’attesa di una risposta, buona elezione del presidente della Repubblica a tutti.

 

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