Domenica, 12 Novembre 2023 07:55

La sanità a Serra nel '500? Una questione da barbieri (e speziali)

Scritto da Francesco Barreca
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David Teniers il giovane, Il barbitonsore nella sua bottega, 1636. Museo nazionale delle belle arti, Budapest. David Teniers il giovane, Il barbitonsore nella sua bottega, 1636. Museo nazionale delle belle arti, Budapest.

Tra il 1597 e il 1603 la Congregazione dell’Indice, nell’ambito dell’applicazione dell’Indice dei Libri Proibiti promulgato da Clemente VIII, condusse un’inchiesta conoscitiva al fine di avere notizia dei libri posseduti dai religiosi italiani. Il risultato documentario di questa inchiesta – circa 9500 liste manoscritte di libri – è oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Nelle liste trasmesse alla Congregazione, i monasteri più diligenti non si limitarono a elencare i libri in loro possesso, ma vi inclusero anche quelli di proprietà di alcuni dei loro subordinati. La Certosa di Serra fu uno di questi monasteri: insieme alle liste di libri appartenenti ai monaci e al clero secolare, infatti, inviò notizia dei libri posseduti dai vassalli e nelle grange. 

In genere, i monasteri si affidavano a risorse interne per la gestione delle cose mondane e per sovrintendere il lavoro degli amministratori dei territori sotto la loro giurisdizione. Per quanto riguarda la Certosa di Serra, molti i monaci possedevano il manuale di costruzioni di Giorgio Lapazaya, numerosi erano pure quelli che avevano manuali di diritto e piuttosto diffusi erano i manuali di agricoltura. In questo modo, la Certosa poteva occuparsi direttamente delle questioni edilizie, legali e ambientali interne ed esercitare efficacemente le proprie prerogative in merito anche all’esterno. In ambito specificamente sanitario, il converso Bernardo de Pezzo è accreditato come pharmacopola (speziale, farmacista) del monastero e quasi certamente era addetto non solo alla preparazione di rimedi per uso medico ma anche di estratti, sciroppi e liquori per uso alimentare. Per svolgere il proprio lavoro, de Pezzo si affidava in primo luogo a un gruppo di rispettati trattati latini medievali: l’Antidotarium Nicolai commentato da Matteo Plateario, i canoni universali sui purganti di Mesué il giovane con il commento di Mondino de’ Liuzzi, il Luminare maius di Manlio del Bosco e l’Opus pandectarum medicinae di Matteo Silvatico. Erano, questi, i “ferri” del mestiere classici del farmacista di formazione tradizionale, grossi volumi in-folio che testimoniavano, prima ancora che la conoscenza, la dignità dello “speziale colto,” praticante a pieno titolo di un’arte già ampiamente corporativizzata, regolata e riconosciuta a livello istituzionale. Comunque, de Pezzo disponeva pure di alcuni testi più recenti che attestano una sua cauta apertura nei confronti delle nuove tendenze della farmacopea, come il Dispensatorium latino di Valerius Cordus, i Discorsi di Pietro Andrea Mattioli su Dioscoride, Delle Osservationi di Gerolamo Calestani e il monumentale La fabrica de gli spetiali di Prospero Borgarucci, manuale di farmacopea di quasi 900 pagine pubblicato nel 1567.

L’interesse di Bernardo per la pratica medica in senso stretto e per la chirurgia, a giudicare dai libri in suo possesso, appare piuttosto limitato. L’unico testo di carattere “medico” è Li meravigliosi secreti di medicina e chirurgia di Giovanni Battista Zapata raccolti da Giuseppe Scienza. Si tratta di uno dei tanti “libri di segreti”, sorta di prontuari, molto popolari all’epoca, nei quali si fornivano consigli, non solo di carattere medico, spesso stravaganti e fantasiosi. Nel libro di Zapata, ad esempio, viene illustrato "lo sternutatorio", cioé un metodo per "evacuare i vapori rinchiusi nel cervello" che consiste nel costruirsi un cotton fioc con un bastoncino e della bambagia, immergerlo in una miscela di miele rosato e acido solforico e poi infilarselo nel naso il più in profondità possibile; e si raccomanda l'uso dell’Acqua di Esculapio, un farmaco in grado di guarire tutte le malattie che altro non è che aceto distillato in una campana di piombo. Per il resto, la letteratura medica nella disponibilità immediata dei certosini si riduceva a una copia del commento di Galeno agli aforismi di Ippocrate posseduta dal monaco Andrea da Rosarno, professo di Padula. Pur essendo uno dei testi medici più famosi e diffusi, il Commento è tuttavia un'opera dall'impostazione prevalentemente filologico-filosofica e dunque di limitata utilità pratica. Per questo motivo, è ragionevole pensare che in caso di necessità – emergenze mediche interne, ma anche questioni di igiene, profilassi e gestione della sanità pubblica nelle immediate vicinanze del monastero – i Certosini si affidassero al barbiere di Serra, Giovanni Filippo Fiorentino.

Una pagina del manoscritto Vat.Lat. 11276 con la lista di libri posseduta da Bernardo de Pezzo ©Biblioteca Apostolica Vaticana.

Tra il Quattrocento e il Cinquecento, il barbiere o barbitonsore era una delle figure professionali che si occupavano della cura del cosiddetto “corpo esterno”. I medici propriamente detti, infatti, si interessavano principalmente del “corpo interno”, spesso da un punto di vista teorico, e di rado visitavano i malati, in particolare se di bassa estrazione sociale. Il medico riceveva nel suo studio l’infermo o un suo delegato, il quale portava con sé un campione di urine da esaminare. Dopo averle attentamente studiate alla vista, all’olfatto, al tatto e talvolta al gusto, il medico scriveva un consulto e se necessario stabiliva una cura. Quest’ultima prevedeva sempre un regime alimentare particolare e in genere includeva la prescrizione di un rimedio, che il paziente doveva procurarsi da sé. Nel caso di una profonda ferita all’addome, di una frattura o di un ascesso non ci si rivolgeva al medico ma a un “professionista del corpo esterno”: un chirurgo, un ciarlatano, il boia, un barbitonsore o, alla peggio, un macellaio. Queste erano le figure che, diremmo oggi, offrivano prestazioni ambulatoriali.

Nelle aule universitarie il medico sedeva su un alto scranno e leggeva, commentandoli, Ippocrate, Galeno, l’immancabile Aristotele e al-Rāzī mentre i barbieri, i macellai o il boia eseguivano la dissezione di un cadavere. Nella maggior parte delle lezioni, in realtà, non c’era nessun cadavere da dissezionare e in molte neppure si parlava di medicina, ma di metafisica, logica e astrologia. La pratica non era affare del medico: se ne occupava il chirurgo, e la chirurgia, più che una disciplina medica, era considerata un’attività artigiana. I medici consideravano degradante, se non addirittura offensivo e lesivo dell’onore, essere accomunati ai chirurghi. Il chirurgo vero e proprio, d’altra parte, a differenza del barbitonsore, aveva ricevuto un’istruzione e frequentato una scuola di chirurgia. In genere lavorava al servizio personale di un Signore oppure come medico condotto (cioè stipendiato dalle autorità locali) e in alcune occasioni, ad esempio nel corso delle frequenti epidemie, poteva anche assumere le funzioni di ufficiale sanitario aggiunto. Questo avveniva soprattutto nelle città e nei centri più popolosi, dove esisteva una domanda di prestazioni sanitarie sufficientemente ampia e strutturata da sostenere le attività distinte e specializzate di medici, chirurghi e speziali. Nei casali come Serra, invece, la bottega del barbiere era di solito l’unico presidio medico fisso, cosicché il barbiere stesso finiva per svolgere contemporaneamente le mansioni di chirurgo, medico condotto, speziale e, quando necessario, ufficiale sanitario.

Quello dei barbitonsori era un sapere di carattere essenzialmente pratico, familiare, non codificato in scritti ma tramandato oralmente di generazione in generazione, al quale contribuivano in maniera significativa anche le donne della famiglia. Queste ultime, infatti, si occupavano in genere della parte farmaceutica del lavoro, preparando pomate, balsami, pillole, sciroppi e decotti; spesso, inoltre, lavoravano come levatrici. In molti casi, poiché le famiglie erano molto attente a preservare i segreti della professione, questo sapere diventava altamente specializzato: i Boiano (noti anche come Vianeo) di Tropea erano maestri della rinoplastica, un trattamento molto richiesto tra Quattrocento e Cinquecento perché la distruzione del setto nasale è uno degli effetti più evidenti e spaventosi della sifilide. Nel periodo di massimo successo, i Boiano ricevevano pazienti – soprattutto nobili – da tutta Europa. La loro attività cominciò a declinare quando, nel 1549, il medico bolognese Leonardo Fioravanti riuscì a carpire con l’inganno il segreto della loro tecnica. I barbieri di successo come i Boiano potevano permettersi di dare ai figli, oltre agli insegnamenti pratici, anche un’istruzione formale che avrebbe potuto condurli alla laurea in medicina o a un diploma in una scuola di chirurgia, e così a uno status di chirurgo vero e proprio. Il barbitonsore aveva dunque, attraverso l’esercizio della chirurgia, la concreta possibilità di elevare la condizione sociale della propria famiglia.

Alla fine del Cinquecento la distanza tra medicina e chirurgia si andava però riducendo. Una mutata sensibilità culturale nei confronti della conoscenza pratica spingeva i medici a riconoscere la necessità di “sporcarsi le mani” e non limitarsi ai consulti e alle prescrizioni, né semplicemente a supervisionare l’operato dei barbieri-chirurghi. Nelle facoltà di medicina il ricorso ai barbieri, ai boia e ai macellai per le dissezioni si faceva sempre più raro. Sul frontespizio del trattato di anatomia De humani corporis fabrica del medico Andrea Vesalio (1543), Vesalio è raffigurato al tavolo di dissezione nell’atto di eseguire lui stesso la procedura, mentre due barbieri ai suoi piedi si contendono l’onore di reggergli il rasoio. Per la verità, i chirurghi e i barbieri altamente specializzati già da molto tempo rivendicavano per la chirurgia la dignità di disciplina medica e non offrivano prestazioni come il taglio dei capelli e della barba né accettavano di essere accomunati a figure professionali dalla reputazione controversa, come i ciarlatani, o apertamente disprezzate e giuridicamente discriminate, come i boia. Tuttavia, fu solo con le aspre critiche alla cultura medica tradizionale mosse da medici “veri” come Vesalio e da “paracelsiani” come Leonardo Fioravanti che le loro prese di posizione cominciarono a far breccia nel mondo culturale e istituzionale. E mentre nelle città le scuole di chirurgia fiorivano, assicurando a chi le frequentava una carriera importante e ben retribuita nel settore medico, i barbieri che speravano di elevarsi socialmente attraverso la pratica della chirurgia si vedevano costretti a studiare sui libri, se non il latino e i classici letterari, quantomeno i fondamenti teorici della fisiologia e il lessico specifico dell’anatomia. L’industria editoriale, svelta a venire incontro alle esigenze dei nuovi lettori, che nella stragrande maggioranza dei casi non conoscevano il latino, inondò il mercato del libro in volgare di compendi e antologie di manuali universitari, traduzioni di opere classiche, nuovi trattati e soprattutto “libri di segreti” che, proponendosi come strumenti per l'autodiagnosi e l'automedicazione, ebbero enorme successo presso il grande pubblico. Nelle biblioteche dei vassalli serresi, ad esempio, la Certosa segnalava l’esistenza di due libri di segreti – i Secreti medicinali di Pietro Bairo e il già ricordato Li meravigliosi secreti di medicina e chirurgia di Giovanni Battista Zapata – in dotazione rispettivamente a Giovanni Tommaso Cosentino e a Nunzio Panaija, quest’ultimo probabilmente il maestro “umanista” del paese, vista la quasi esclusiva presenza nella sua biblioteca di testi classici e manuali scolastici come la Grammatica di Jan de Spauter.

Strumenti del barbitonsore e valigetta. da Johannes de Ketham, Wurdartznei: Zu allen Gebrechen des Gantzen Liebs (Strasbourg: Eg[enolff], 1530)

 Strumenti del barbitonsore e valigetta, da Johannes de Ketham, Wurdartznei: Zu allen Gebrechen des Gantzen Liebs (Strasbourg: Eg[enolff], 1530).

Nulla avremmo saputo di Giovanni Filippo Fiorentino se egli non avesse posseduto libri e i monaci non fossero stati così meticolosi nell’adempiere alle richieste della Congregazione dell’Indice. Il documento trasmesso dalla Certosa indica Fiorentino come “barbitonsore” e possessore di nove volumi, quattro dei quali direttamente legati alla sua professione. Già questa circostanza è indicativa del fatto che, in qualche modo, Fiorentino ambiva a essere qualcosa di più di un “semplice” barbiere. E ciò non tanto o non solo per una questione di realizzazione personale, ma prima di tutto per elevare il nome della famiglia. Il barbiere era infatti uno dei pochi mestieri che, per via della prossimità con le professioni medico-chirurgiche, permetteva una relativa mobilità sociale. E se un barbitonsore rimaneva sempre un barbitonsore, tuttavia, se fosse riuscito a diventare un eccellente e rispettato barbitonsore, avrebbe dato ai suoi figli la possibilità di accedere alle corporazioni dei chirurghi, degli speziali o dei medici. Per contro, difficilmente un eccellente macellaio sarebbe riuscito a far entrare il figlio in una scuola di chirurgia. Queste scuole erano costose e i posti limitati. I criteri di ammissione privilegiavano in primo luogo la provenienza da famiglie di chirurghi e barbieri di fama, e ci si aspettava che il candidato avesse già alle spalle diversi anni di esperienza in campo medico-chirurgico.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che Fiorentino non era un uomo "colto," che la sua formazione avvenne “in bottega” e che fosse estraneo sia ai circoli corporativi dei chirurghi che a quelli degli speziali. Quasi certamente non conosceva il latino, il che gli precludeva l’accesso alla letteratura scientifica più avanzata e specializzata. Gli unici libri di carattere letterario in suo possesso sono Le cose maravigliose della città di Roma (quella che oggi chiameremmo una guida turistica), una traduzione dell’Africa di Petrarca e l’antologia Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni. Queste due ultime opere, e specialmente le Lettere, volevano soprattutto fornire al lettore un modello di stile, per educarlo al “ben parlare” – virtù richiesta ai chirughi e ai barbitonsori che aspiravano a presentarsi come gentiluomini e così a distinguersi da ciarlatani, macellai e boia.

Bisogna segnalare che il semplice possesso di testi medici non significa che Fiorentino facesse tutto quanto contenuto in quei testi. Se un manuale nella disponibilità di Fiorentino descrive, per dire, una splenectomia, ciò non vuol dire che a Serra si eseguissero splenectomie. Il possesso di libri ci dice che un certo sapere è disponibile in un luogo e in un tempo; pertanto, più che informarci su cosa Fiorentino effettivamente facesse, ci racconta, in generale, qualcosa della cultura medica locale, dell’approccio all’assistenza sanitaria e delle aspirazioni sociali di Fiorentino all’interno del contesto materiale e spirituale in cui egli operava.

Il manuale di riferimento da lui utilizzato nella pratica chirurgica è un’edizione del 1568 di una popolare raccolta di testi di chirurgia che include la Pratica universale in cirurgia di Giovanni da Vigo, il Compendio di cirurgia di Mariano Santo, due brevi trattati di Giovanni Andrea della Croce sulle ferite al ventre e sulle ferite da taglio e da arma da fuoco, una selezione di testi di Leonardo Fioravanti e alcune additioni su argomenti disparati. Con l’eccezione dei testi di Fioravanti, sono opere che, nell’originale versione latina, erano allora in uso nelle scuole di chirurgia e venivano proposte al grande pubblico in traduzione e compendio. Per quanto, nel suo insieme, la raccolta fornisse a Fiorentino un succinto ma completo quadro dell’anatomia, dei tumori (Posteme), delle ferite, delle piaghe, della sifilide (morbo gallico), delle fratture e della farmacopea medica, si trattava di un’opera chiaramente destinata a chi voleva dedicarsi soprattutto alla traumatologia, una specializzazione che doveva essere piuttosto richiesta in una comunità che viveva principalmente di lavori legati al bosco, ad alto rischio di incidenti, e in cui la violenza era molto più diffusa di quanto non lo sia oggi.

Negli scritti di Giovanni da Vigo vengono discusse approfonditamente le medicazioni delle ferite e la legatura dei vasi sanguigni. I trattati di Giovanni Andrea della Croce sono traduzioni compendiate dei suoi famosi studi sul trattamento delle ferite dovute ad armi da taglio e da fuoco. Mariano Santo tratta delle infezioni chirurgiche e del salasso revulsivo. Come detto, non possiamo sapere con certezza che cosa Fiorentino effettivamente facesse, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che esercitasse professionalmente la chirurgia. La raccolta da lui posseduta, infatti, era un manuale di consultazione standard utilizzato sia da barbitonsori che da chirurghi "colti". E se è assai improbabile che Fiorentino eseguisse la perforazione del cranio come illustrata da Giovanni da Vigo nella Pratica universale e nelle additioni, è però affatto plausibile che tentasse di trattare comunque le ferite del capo con i disseccativi, come suggerito nel Compendio, e fosse in grado di riconoscere una frattura cranica grazie ai “segni” indicati nel testo, indipendentemente dal fatto di provare poi a eseguire le difficili e pericolose procedure spiegate nella Pratica universale. Magari, dopo aver comunicato la prognosi infausta, Fiorentino spiegava che, se avesse avuto a disposizione i ferri chirurgici inventati da Vigo e le ricette segrete dei “liquori” di Fioravanti, avrebbe potuto salvare il paziente. Allo stesso modo, scorrendo il trattato di Giovanni Andrea della Croce, trovava istruzioni per riconoscere eventuali danni agli organi interni e indicazioni per provare a trattarli. Molto probabilmente poteva curare una ferita alla gola o al ventre ricucendola e lasciando aperto un “buccacciolo” per far “spurgare il marcio”, oppure eseguire amputazioni di dita e asportazioni di piccoli tumori superficiali; certamente ricomponeva fratture, cavava denti, incideva ascessi, trattava ulcere cutanee sia per via farmacologica che chirurgica ed eseguiva flebotomie. Paradossalmente, quel che del tutto ignoriamo a proposito del barbiere di Serra è se tagliasse la barba e i capelli ai suoi compaesani.

Diagramma di Mariano Santo per l'esecuzione del salasso revulsivo.

Diagramma di Mariano Santo per l’esecuzione del salasso revulsivo, dall'edizione del Compendio posseduta da Giovanni Filippo Fiorentino.

Fiorentino disponeva anche del Ricettario di Galeno, un agile compendio di medicina popolare – rinvenibile anch’esso in molte collezioni librarie di barbitonsori e chirurghi – che contiene, tra le altre cose, riferimenti all'astrologia e tavole sul momento migliore di praticare i salassi in funzione del giorno e dell'ora. Fiorentino non possedeva, a quanto pare, testi astrologici; comunque, in caso di necessità, avrebbe certamente potuto rivolgersi ai monaci che tenevano nella loro cella gli scritti e le tavole del famoso astrologo Rutilio Benincasa. Il Ricettario di Galeno, tuttavia, come indica il titolo stesso, è prima di tutto un libro di rimedi nel quale sono elencate numerose preparazioni farmacologiche. Oltre al Ricettario, Fiorentino possedeva anche l’Herbolario volgare, erroneamente attribuito a Jacopo Dondi, e una traduzione in volgare del Dispensatorium di Valerius Cordus (che Bernardo de Pezzo, come abbiamo visto, possedeva nella versione latina). Non si tratta dei manuali di botanica e farmacopea latini riccamente illustrati e adottati dalle corporazioni di speziali come quelli posseduti da de Pezzo, ma di edizioni economiche, in volgare, di testi dal taglio prettamente pratico che però venivano usati, per una questione di comodità, anche dagli speziali di professione . Ciò induce a ritenere che Fiorentino fosse particolarmente attivo nella farmacologia e che dunque in paese esistesse una domanda di rimedi slegata dalle necessità chirurgiche. Infatti, i preparati necessari prima, durante e dopo le operazioni chirurgiche sono già ampiamente illustrati nella farmacopea che chiude la Pratica universale. Evidentemente, la spezieria della Certosa provvedeva alle necessità interne e non forniva, diciamo così, un “servizio al pubblico”. Presi insieme, i testi di farmacopea posseduti da Fiorentino costituiscono un corpus piuttosto coerente grazie al quale si possono ottenere informazioni sulla natura e le virtù delle piante medicinali, sulla preparazione dei rimedi e sul loro uso terapeutico. In teoria, Fiorentino poteva preparare un’ampia varietà di farmaci, tra cui la famigerata teriaca e delle pillole da somministrare ai moribondi composte da sangue di drago, mummia polverizzata, oppio, franchincenso, mastice, galle e piantaggine.

È difficile che Fiorentino si dedicasse a questo tipo di sperimentazioni. Più realisticamente, l’esercizio della professione si svolgeva sotto il controllo più o meno rigido dell’autorità certosina e nella cornice di una spiritualità e di una cultura profondamente influenzate dal vicino monastero e dalla sua autorità secolare. L’unico libro di carattere spirituale posseduto dal barbitonsore è una copia delle Diuotissime meditationi sopra i giorni della settimana del famoso teologo domenicano Luis de Granada, autore amatissimo dai certosini di Serra, il più presente nelle liste inviate alla congregazione dell’Indice. Nelle meditationi, la preghiera è definita “medicina degli infermi” e la devozione un “unguento e medicina del cuore.” Il parallelismo tra la medicina e la cura delle anime è ribadito in diversi luoghi delle meditationi, e la medicina talvolta diventa strumento esplicativo della fede: così, ad esempio, per spiegare la necessità di interiorizzare “a forza” i misteri del cristianesimo, Granada ricorda che “le medicine non giovano all’infermo se non sono mandate nello stomaco et digerite con la forza del caldo naturale.” Il modello di virtù proposto da Granada, peraltro, ben si accorda con il chirurgo ideale delineato da Giovanni da Vigo, per il quale deve quello essere “fidele, e discreto, percioché la fede, e honestà danno buon indicio, e speranza, al patiente di dover risanarsi.” Inoltre, la rettitudine morale e la pietà cristiana erano condizioni necessarie affinché l’autorità appoggiasse le aspirazioni sociali di un barbitonsore.

È pressoché inevitabile che il barbitonsore del paese e il pharmacopola della Certosa avessero dei contatti, a maggior ragione se, come appare plausibilissimo, oltre a essere mandato a chiamare per questioni medico-chirurgiche interne, Fiorentino era obbligato a riferire all’autorità certosina sulla situazione sanitaria del paese e in particolare su eventuali casi di contagio. E se la constatazione di un’influenza esercitata dall’interno verso l’esterno appare banale, molto meno banale è riconoscerla nella direzione opposta. Da questo punto di vista, la circolazione del sapere tecnico-scientifico fu probabilmente uno dei canali privilegiati. L’ordine certosino non era (e non è) particolarmente interessato alle questioni scientifiche. La diffusione di questo tipo di sapere, al suo interno, è sempre stata determinata dagli interessi personali dei singoli monaci o dalle necessità pratiche. Il sapere tecnico-scientifico, d’altra parte, non è neutro, ma porta con sé valori, giudizi e istanze sociali. Nell’attività di barbitonsore di Fiorentino così come l’abbiamo ricostruita a partire dai suoi libri sono implicite le critiche alla cultura medica tradizionale, le aspirazioni sociali e i valori morali di una generazione che guardava al futuro con propositi, speranze e aspettative radicalmente nuove. In una comunità così interdipendente come quella serrese-certosina, ciò non poteva non avere effetti. Sappiamo pochissimo di tutto questo, ma micro-storie come quelle di Bernardo de Pezzo e Giovanni Filippo Fiorentino ci aiutano ad accendere minuscole luci nelle profonde oscurità della Storia.

Illustrazione dei segni zodiacali corrispondenti alle parti anatomiche, dall'edizione del Recettario di Galeno posseduta da Giovanni Filippo Fiorentino.

Frontespizio dell’Herbolario volgare raffigurante i Santi medici Cosma e Damiano.

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