Domenica, 08 Aprile 2012 10:45

Sharo e la via crucis di Gesuino

Scritto da Redazione
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Si consuma proprio nella bocca maledetta di una capra il sacrilegio che potrebbe causare la dannazione dell’anima del povero Gesuino. Detta così sembrerà improbabile, invece quanti hanno letto o leggeranno “Sole Nero a Malifà” – il primo romanzo di Sharo Gambino ristampato da Rubbettino – avranno ben presente come quell’inenarrabile “mal’azione”, quell’empietà cui il piccolo pastore malifioto timoratissimo di Dio è stato costretto, sia all’origine di un crescendo di follia mistica che alla fine porterà il protagonista a cercare la definitiva purificazione nella sua personale, grottesca, tragica via crucis. Già il suo nome, Gesuino, è una chiara metafora del destino cui vanno incontro il piccolo pastore e la sua gente, sopravvivendo tra miseria, arretratezza e superstizione in un villaggio arroccato sulle montagne dell’altopiano delle Serre, nella valle del fiume Allaro.

Gesuino eredita dalla madre il fervore religioso intriso di credenze popolari che lo porta, fin da bambino, ad inseguire spasmodicamente la redenzione e a tenere lontana dal suo cuore, ancora puro, la malvagità della “Bruttabestia”. Ben presto, però, costretto dal padre intrattabile e violento, compie alcune “mal’azioni” che culmineranno nell’episodio grottesco della capra, cui Gesuino è obbligato a dare la comunione, a mezzanotte nel bosco, per propiziare, come in un improbabile rito satanico, la ricerca di un tesoro che ovviamente risulterà vana. Da quel momento Gesuino sprofonda in un abisso di paura e angoscia che lo indurrà a cercare in ogni modo di espiare il terribile peccato, portando alle estreme conseguenze la sua imitazione di Cristo. La madre, con la sua religiosità ossessiva e deviata, tra fanatismo e malocchio, alimenterà i suoi affanni fino all’inverosimile, e a mitigare il suo dolore sarà solo, con brevi e fugaci incontri, la dolce Tera, l’unica che riuscirà ad alleggerirgli l’anima.

Accanto alla parabola umana di Gesuino, però, lo scrittore calabrese, serrese d’adozione, scomparso nel 2008, racconta anche il destino dei malifioti. Anche se i nomi dei luoghi al centro della vicenda sono di fantasia, sia le descrizioni che alcune assonanze rimandano chiaramente ad un territorio ben preciso, che è quello di Nardodipace e delle sue frazioni sperdute, strette tra le Serre e le cime dell’Aspromonte, ai confini tra il reggino e il vibonese. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1965, è da collocare, come sostiene Tonino Ceravolo nell’introduzione, a conclusione della parabola neorealista di cui negli anni precedenti erano stati protagonisti grandi scrittori calabresi come Fortunato Seminara e Corrado Alvaro. E se nel motivo ispiratore, per ammissione dello stesso Gambino, “Sole nero a Malifà” è chiaramente assimilabile a “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi, l’essenza del romanzo, la narrazione impietosa dei personaggi e della condizione sociale in cui vivono, è in tutto e per tutto figlia di Alvaro e dei racconti di “Gente in Aspromonte”. Gambino confeziona così – con prosa molto meno intrisa di lirismo rispetto allo scrittore di San Luca – un piccolo capolavoro che, pur risultando a tratti cupo e spietato, si sviluppa su un intreccio molto suggestivo e di una semplicità inarrivabile. La struttura del romanzo appare praticamente perfetta, e inoltre, nella scrittura, asciutta ma sempre intrigante, Gambino non tradisce alcun “compiacimento sadico” – lo rileva Antonio Cavallaro nella nota al testo – nei confronti della realtà di cui narra. Usa invece metafore disarmanti per descrivere una condizione di arretratezza e di abbandono che lui stesso toccò con mano proprio a Cassari, negli anni successivi all’alluvione, dove giunse nel 1958 come inviato dell’Unione nazionale per la lotta all’analfabetismo per insegnare ai contadini del luogo a leggere e scrivere (foto). Un’esperienza, questa, che lo aveva segnato profondamente, e che gli aveva ispirato, oltre che Sole Nero, anche dei bellissimi versi, rari nella sua produzione letteraria. Aveva insegnato a leggere e scrivere, tra gli altri, anche al “poeta di Nardodipace”: da allora lo chiamano così per il suo eloquio, e a lui, fonte d’ispirazione per il personaggio di Gesuino, lo scrittore serrese dedicò il suo primo romanzo.

Nelle frazioni montane (Cassari, Ragonà, Santo Todaro, Vecchio Abitato), molto distanti tra loro e dal capoluogo (fino a 36 km), si viveva in quegli anni una situazione drammatica: mancavano i servizi essenziali, non c’era il medico né il telefono, l’acqua corrente arrivò nella case agli inizi degli anni ’80, e in alcuni casi mancava pure il cimitero – i morti venivano avvolti nelle lenzuola e trasportati su scale a pioli. Quella realtà “disperata” – c’erano state due alluvioni (’51 e ’53), e un’altra si sarebbe verificata nel ’73 – spinse Gambino ad inviare dei rapporti allarmati all’Unla e a vergare delle corrispondenze giornalistiche (una sua lettera fu pubblicata sul quotidiano Il Tempo) che avrebbero acceso i riflettori sulla condizione di Nardodipace, tanto da far arrivare da Roma dei camion di aiuti umanitari, carichi di vitamine e generi alimentari di prima necessità.

La terra era al contempo unica fonte di sostentamento e crudele portatrice di morte: in Sole Nero lo stato di fragilità permanente del territorio è ben rappresentato dalla costante minaccia che per Gesuino rappresentano le tantissime frane che si trova costretto ad attraversare. La scarsa terra coltivabile stava tutta in dei piccoli lembi di terra “strappati all’aspra montagna”, che formavano dei gradini che per non franare erano trattenuti da dei muretti di pietre, cementate solo dall’erba, detti “armiciedhi”, autentico simbolo della miseria e dell’instabilità cui erano condannate le popolazioni che, afflitte da calamità di ogni genere, abitavano la vallata dell’Allaro.

La storia di Gesuino, quindi, è per Gambino uno splendido pretesto per dare voce a chi ha sempre vissuto ai margini, per consegnare alla Storia ciò che sarebbe altrimenti destinato all’oblio, per raccontare alla sua maniera, con forte coscienza sociale e politica, una parabola universale che arriva dalla periferia della periferia. Quasi a confermare, se mai ce ne fosse bisogno, ciò che sosteneva Italo Calvino: “Il neorealismo non fu una scuola, ma un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, specialmente delle Italie fino allora più sconosciute dalla letteratura”. 

(le foto pubblicate sono state scattate da Franco Gambino tra gli anni '60 e i '70 nelle frazioni di Nardodipace; i disegni sono di Sharo Gambino, realizzati durante la permanenza dello scrittore a Cassari, dal 1958 ai primi anni '60)

 


  

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