Un giallo, ma più che un giallo un mistero, un autentico rompicapo del quale si è lentamente persa la memoria. Un episodio, strano, accaduto oltre trent’anni fa, in un luogo sul quale, da sempre, aleggia il mistero ed alberga la leggenda. La Certosa di Serra San Bruno, per certi aspetti, un luogo simbolo, sul quale spesso si esercita un giornalismo da avanspettacolo alla ricerca di facile sensazionalismo e scoop a buon mercato. Da Majorana, a Milingo, dal pilota di Hiroshima a Federico Caffè, ammesso che sia tutto falso, quando c’è da cercare una traccia di qualche illustre personaggio “svanito” nel nulla, la Certosa viene sistematicamente chiamata in causa.
Mentre fiumi d’inchiostro hanno solcato le cronache nella costruzione di notizie romanzate da offrire in pasto al grande pubblico, episodi reali e misteri consumatisi tra le mura di cinta ed il chiostro, sono stati, invece, frettolosamente consegnati ad un oblio troppo sbarazzino per non suscitare qualche sospetto. Quello che ci accingiamo a narrare è un fatto realmente accaduto, che, all’epoca, dovette suscitare non poco scalpore in quello che Normann Douglas aveva definito “il paese più bigotto della Calabria”. Un episodio che occupò marginalmente le cronache e che ben presto venne derubricato al semplice pettegolezzo da strapaese. Il 21 febbraio del 1975, era una giornata fredda, gelida, un timido sole, ogni tanto, faceva capolino tra le nuvole minacciose che si addensavano all’orizzonte. I serresi intenti alle loro attività e con la testa già rivolta alla pausa domenicale, ormai prossima. Sembrava un venerdì come tanti altri, quando, nella tarda mattinata, iniziò a circolare un’indiscrezione clamorosa, per certi versi inquietante. Chi aveva dato per primo la notizia, lo aveva fatto come se in realtà stesse facendo una domanda. “Dicia ca s’ammazzau nu monacu, cus’apa se vieru?”. Una volta trapelato, quello che sulle prime sembrava un pettegolezzo, era stato propalato con sconcertante rapidità, tanto da arricchirsi, nel corso delle ore, di particolari e dettagli non sempre aderenti alla realtà. Qualcuno, con sicumera, andava ripetendo: “dicia ca non era nu monacu, dicia ca s’ammazzau lu priguri”. In tanti, già dubbiosi sulla prima notizia, stentavano a credere alla seconda. Era difficile già immaginare che un certosino si fosse tolto la vita, contravvenendo uno dei più importanti precetti cristiani, ma un padre priore, poi? La condanna per chi si toglieva la vita era categorica. Formulata con la patristica si era arricchita di postulati e riflessioni con la scolastica. Il primo a condannare il suicidio, era stato, infatti, Sant’Agostino, nella “Città di Dio”. Il precetto era stato espresso con maggior vigore, in epoca medievale, da San Tommaso D’Aquino, che aveva definito il suicidio “un peccato contro Dio”. Eppure, al di là di ogni ragionevole dubbio, come riportato, due giorni dopo nelle pagine dedicate alla cronaca nazionale della “Gazzetta del sud”, le mura certosine erano state teatro di un fatto che, come recitava l’occhiello, aveva “Turbato la pace del Convento”. Il titolo del pezzo firmato da Domenico Nunnari, non lasciava alcun dubbio: «S’impicca a Serra San Bruno il padre priore della Certosa». La notizia, per il quotidiano, siciliano, ancora privo delle pagine calabresi, era rilevante, a tal punto da trovare ospitalità a pagina due. Lo stridente contrasto tra il fatto e il luogo in cui si era consumato, emergeva, chiaramente, fin dall’incipit. Nunnari, infatti, apriva il pezzo, così: «La grande e secolare pace nella Certosa di Serra San Bruno è stata infranta per un inatteso e gravissimo evento: la tragica scomparsa del padre priore che si è ucciso impiccatosi all’interno del convento». Ma chi era il protagonista? L’uomo che aveva deciso di lasciare il silenzio certosino per attraversare l’Acheronte, era un vigoroso quarantaseinne, originario di Boixtel, una cittadina di trentamila abitanti situata nella provincia olandese del Brabante settentrionale. Willibrando Pnemburg, il nome, era « stato trovato morto da altri religiosi» nella sua cella, impiccato con le lenzuola al proprio letto. Cosa abbia potuto indurre il priore a compiere quel gesto, era e rimane un mistero. Secondo la cronaca del tempo, «Niente lasciava presagire quella fine», tanto più che «da qualche anno, per libera scelta dei padri era stato eletto alla suprema carica della Certosa, certamente in considerazione delle sue elette virtù, per il suo scrupolo nella condotta della vita comunitaria, per la sua dedizione assoluta agli ideali certosini». Un uomo di grandi meriti «esterni» e «visibili», legati, senz’altro, al restauro della monumentale chiesa rinascimentale distrutta dal terremoto del 1783». Un restauro significativo che aveva interessato anche i “famosi” pinnacoli della vecchia facciata. Nella ricostruzione giornalistica, padre Penenburg viene descritto come «un religioso equilibrato, sensibile, preparato […] dotato anche di un gran senso di umanità. La sua cultura, le sue capacità, legate a grande rettitudine d’animo, lo avevano fatto prescegliere dalla casa madre di Grenoble come uno dei padri «visitatori». Da qui, i frequenti viaggi all’estero e nelle altre case italiane per adempiere alle delicate mansioni affidategli. […] Si può ritenere che proprio lo «stress» di questi continui spostamenti in Paesi diversi abbia nuociuto alla sua salute fisica e forse, al suo stato mentale. Ogni altra ipotesi viene esclusa da quanti hanno avuto rapporti con lui». La conclusione lapidaria del cronista, riprende, con tutta evidenza, la semplicistica tesi ufficiale, divulgata all’epoca con l’intento di far calare sulla notizia un repentino silenzio. Un intento più che riuscito, se è vero come è vero, che, in circa quarant’anni, nessuno è più ritornato sull’episodio. Tuttavia, la tesi appare in stridente contrasto con il ritratto stesso del priore, definito dal cronista «un religioso equilibrato», a tal punto da farlo prescegliere quale componente di «una ristretta commissione centrale che, in omaggio allo spirito del concilio Vaticano II, era incaricato di promuovere nell’ordine adeguamenti graduali». Viene, quindi, da chiedersi, possibile che nessuno nei giorni precedenti si fosse accorto di un disagio che di lì a poco si sarebbe risolto in un suicidio? E poi, per quanto numerosi potessero essere, è mai possibile, che i viaggi abbiano causato uno stress tale da indurre un uomo «equilibrato» a togliersi la vita? Tanto più, che, da quanto appreso, pare che in prossimità dell’accaduto il priore fosse stato chiamato presso la casa madre di Grenoble. Un viaggio per il quale sarebbe partito «sereno», «tranquillo» e dal quale, pare, fosse ritornato «turbato», «preoccupato». Cosa sia successo in Francia nessuno lo sa. Ciò che, invece, si conosce è la diceria circolata in paese all’epoca, ma non solo. I serresi, infatti, amanti del pettegolezzo, tanto più se pruriginoso, la notizia la ricordano e molti non si sottraggono ad aggiungere, seppur a mezza bocca, qualche particolare che vorrebbe, all’origine del gesto, una sorta di desiderio di espiazione per aver intrattenuto un rapporto carnale con una donna del luogo. Il pettegolezzo, anch’esso, semplicistico e privo di alcun riscontro, dovette, però, circolare con grande insistenza nelle case serresi se, a distanza di un quarantennio, tutti gli interrogati rispondono all’unisono, associando la morte di padre Pnemburg ad una donna. Volendo scartare le cause riconducibile allo “stress” e ad amorosi sensi, viene, quindi, da chiedersi, cosa ci sia stato dietro quel suicidio troppo frettolosamente archiviato. E se non fosse stato un suicidio?
(articolo pubblicato su Il Quotidiano della Calabria)