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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
«Lontano dalle calde latitudini sudamericane, in un Meridione altrettanto caldo e non solo metaforicamente». I libri sono contagiosi. Sono virus e generano una sorta di malattia che ogni autore vorrebbe trasmettere ai propri lettori. In alcuni casi si è completamente immuni, a volte colpiscono in maniera repentina mentre altre hanno processi di incubazione lenti e affiorano col tempo.
Difficile dire se in Liberandisdòmini di Pantaleone Sergi ci sia lo zampino di Gabriel García Marquez, fatto sta che un primo approccio con la storia sembrerebbe rimandare a quella condizione che fu propria dei personaggi della famiglia Buendía in “Cent’anni di solitudine”. Dopo aver conosciuto il giornalista, lo storico, il saggista e il professore universitario, i lettori di Pantaleone Sergi avranno modo di assaporare la sua verve narrativa in occasione dell’uscita di Liberandisdòmini (edito da Pellegrini) che sarà in libreria dai primi giorni di aprile. Alla vigilia dell’uscita del romanzo, abbiamo rivolto qualche domanda a Sergi, senza dubbio una delle firme più autorevoli del giornalismo calabrese.
Perché la scelta di scrivere un romanzo?
«Perché avevo qualcosa da raccontare e non avevo altro mezzo per farlo. Se fossi stato un uomo di cinema o di televisione avrei potuto realizzare una fiction o un film. Ho pensato ch’era ora di impegnarsi in una nuova impresa. Così, mettendo da parte la scrittura giornalistica e adottando una scrittura frutto di una miscela di italiano e dialetto e di prestiti lessicali dalla lingua spagnola, mi sono cimentato con la narrativa».
A volte si dice di più attraverso la finzione che raccontando il reale. In Liberandisdòmini emerge un po' il punto di vista del giornalista?
«Scrivendo questo romanzo pensavo di essere in qualche modo condizionato da questa polarità, di qua il narratore e di là giornalista. Ma a essere sincero non è stato per niente così. C’è una fitta trama che unisce i due modi di raccontare che sono, ritengo, due aspetti della stessa medaglia. Il punto di vista, a ogni modo, appartiene alla persona non alle modalità di espressione».
Cosa si aspetta dal lettore? Qual è il messaggio che deve essere colto?
«Vorrei essere riuscito a condurlo in un mondo, vero o inventato che sia, in cui egli si riconosca, tra atmosfere che non siano estranee alla sua cultura e alla sua sensibilità. Se così sarà penso di avere raggiunto l’obiettivo che mi ero posto perché non ho messaggi particolari da veicolare o almeno non ci ho pensato. Da tempo mi frullavano in testa tante storie, una di queste storie in particolare. Ho voluto solo raccontarla sperando che piaccia ai lettori come è piaciuta a un vero editore come Pellegrini che ha deciso di proporla nelle librerie italiane».
C'è chi parla di realismo magico, Mambrici come Macondo. Lei è d'accordo?
«Mambrici è un luogo dell’anima. Come Malifà lo era stato per il mio amico Sharo Gambino che affettuosamente mi chiamava brigante e Vizzarro. E in questa mia Mambrici, una Macondo magica e disperata del Sud Italia, la quotidianità si unisce al mito, la gente si cura ancora con intrugli e pozioni magiche, nasce una bambina scimmia, c’è peste, colera e terremoto… e c’è altro. In questo senso sì, c’è realismo magico. Lontano dalle calde latitudini sudamericane, in un Meridione altrettanto caldo e non solo metaforicamente».
Nobilume, politica e malaffare. E poi c'è la povera gente. La stratificazione quanto l'ingiustizia sociale restano punti fermi del suo lavoro...
«La mia lettura di quella società poggia su categorie che non sono diverse tra il giornalista, lo storico e il narratore. L’ingiustizia sociale di cui parli quella era e quella è, con qualunque ottica descrittiva la si affronti. Il narratore ha il vantaggio di poter concentrare tutto in un unico universo. Vorrei dire però che questo è un romanzo e non un’analisi socio-antropologica. È una storia anche di sentimenti, di uomini e donne che si muovono con i loro affanni esistenziali sul palcoscenico di un paese, Mambrici, fatto per lo più di case miserrime, intervallate da poche “palazziate” e da pochissimi palazzi sontuosi, un paese in cui si possono riconoscere tanti altri paesi del nostro sud».
Sta già lavorando o comunque pensando di scrivere un altro romanzo?
«Dico che Liberandisdòmini rientra in un progetto narrativo, una sorta di trilogia e che ho alcune idee e storie pronte o da mettere ancora sulla carta. Tutto dipenderà dal destino editoriale di questo romanzo d’esordio. Se avrà fortuna, se piacerà ai lettori, bene, altrimenti posso anche mettermi dignitosamente da parte e tenermi tutto nel cassetto come ho fatto per anni».
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