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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Santo Tinè, archeologo ed etnologo proveniente dalla Soprintendenza di Siracusa, prima di insegnare in ambito universitario, per un breve periodo di tempo fu anche a quella di Reggio Calabria dove, nel 1962, allestì al Museo di Reggio, la sezione preistorica della stessa struttura.
Durante la sua permanenza in Calabria, condusse scavi nel sito di Favella della Corte, nella Grotta Sant’Angelo III di Cassano Ionio e nella Grotta del Romito a Papasidero.
Nell’ambito delle sue pubblicazioni sulla preistoria nella nostra regione e, in particolar modo, in quello pubblicato nel primo volume della serie dedicata alla storia della Calabria, della Gangemi editore, sostiene che sul finire del IV e i primi secoli del III millennio, l’Italia meridionale continentale, la Sicilia e gli arcipelaghi di Malta e le isole Eolie, furono attraversati da nuove popolazioni con nuovi modelli di cultura materiale e oggettistica strumentale: sia cultuale che di elementi per la conservazione dei cibi ed altro.
Una popolazione con modelli culturali nuovi, quindi, le cui espressioni più appariscenti sono costituite da vasi e ceramica in generale, privi di qualsiasi forma decorativa e forniti da caratteristiche anse tubolari o a rocchetto, applicate direttamente sotto l’orlo. Egli, inoltre, sostiene che la ceramica di questo periodo, legata a queste popolazioni, e a questi cosiddetti modelli culturali, erano di due tipi: uno, il più comune, con “caratteristiche uniformemente bruno-grigiastro delle pareti”, diffuso principalmente sul territorio peninsulare, mentre l’altro, dal “colore rosso corallino”, diffuso principalmente in Sicilia e nei due arcipelaghi menzionati.
Perché, da parte mia, adesso, questo richiamo a Santo Tinè, uno studioso che nonostante stette poco in Calabria, conobbe bene il territorio calabrese dal punto di vista della sua preistoria, e seppe quali tipi di elementi di cultura materiale si potessero trovare su di esso. Tutto ciò è perché, da diversi anni conduco una ricerca sull’antropizzazione della valle dell’Allaro e delle fasce collinari che formano il suo bacino imbrifero.
Inizialmente, quando incominciai, m’interessava solo l’aspetto delle “presenze”, a partire dal periodo magnogreco, poi mi accorsi che quelle cosiddette presenze, per quanto labili, andavano avanti nel tempo, oltre l’VIII secolo a.C. e la fase dell’era dei metalli, oltre l’Eneolitico delle ceramiche in questione e, affondavano le radici nella prima fase del Neolitico. Certo! Parlo anche delle “Pietre di Nardodipace”, non in chiave esoterica o macchiettistica come hanno fatto fino ad oggi, quelli che si sono appropriati della questione ed hanno annullato il mio ragionamento fatto sin dall’inizio: quali popolazioni c’erano nel corso del tempo, in questo territorio, lungo questa vallata fluviale?
Fortunatamente, dopo tante escursioni sul versante dell’Allaro e le sue colline(fiume che si ritiene da molti essere il confine limitale tra locresi e crotoniati, e quindi La Sagra sulla quale avvenne la famosa battaglia nel VI secolo a. C.), soprattutto verso la foce, ho incominciato a trovare ed a individuare in ruderi di costruzioni rurali, pezzi e frammenti di ceramica magnogreca con grossi blocchi squadrati di pietra calcarea, appartenenti a un periodo compreso tra il VI e il IV secolo a. C. Lo stesso vale per i ruderi di un monastero, forse bizantino, inglobati anch’essi in una costruzione rurale.
La cosa più importante, però è di aver trovato oltre cento pezzi di quella ceramica che indicava Santo Tinè: vasi – quelli che ho trovato sono solo pezzi e frammenti – privi di qualsiasi decorazione, con anse tubolari o a rocchetto applicate direttamente sotto l’orlo e dal colore uniformemente bruno-grigiastro. Elementi che vanno inseriti in un contesto di epoche e fasi per capire la loro importanza, e rapportati tra di loro.
Il Neolitico antico, periodo compreso tra il VI e la metà del V millennio a. C., è la fase contrassegnata dalla ceramica impressa (superficie del vaso segnato dalla pressione dell’unghia di chi lo lavorava, oppure da un pezzo di legno o da una scheggia di pietra), quindi, si utilizzava la ceramica decorata; nella seconda parte del Neolitico, quello medio, compreso tra la fine del V millennio e quella del IV, si utilizzava invece la ceramica dipinta, fondamentali per le ricostruzioni furono i ritrovamenti effettuati in alcune grotte calabre: lo stadio medio alto della stratificazione presenziale in quella del Romito; quella di Praia a Mare e le due di Sant’Angelo di Cassano allo Ionio. Nel terzo stadio, quello a cui apparterrebbero le ceramiche da me ritrovate sulle colline del fiume Allaro, nell’area di Focà e Tarsia di Caulonia, invece apparterrebbero a una fase compresa tra il Neolitico recente e l’Eneolitico, in un arco temporale compreso tra il finire del IV millennio a.C. e il XVI – XIV secolo a. C.
La mia opinione è che quei cocci da me rinvenuti in quell’area, siano da datare in quel millennio che va dalla metà del terzo circa, alla metà del secondo circa.
Quindi concludendo, posso dire che i frammenti da me trovati apparterrebbero a quella categoria riconducibile a quanto descritto da Santo Tinè e associabili a quanto rinvenuto nella contrada Caria di Girifalco, dal Marchese Lucifero nel 1889; non solo vi si possono fare questi tipi di riscontro, ma poiché, nello stesso posto ho trovato entrambe le tipologie di ceramiche (la ceramica a superfice marrone-grigiastro e quella rosso corallino, come sosteneva Tinè), ritengo opportuno fare un appello al mondo scientifico, sperando che qualcuno se ne occupi, visto che la Soprintendente di zona, non solo non ha nemmeno rilasciato una ricevuta formale sul deposito (ho solo una ricevuta provvisoria, scritta a mano da un custode), ma a tutt’oggi non sappiamo nulla di iniziative in atto, non solo per questo sito e questi rinvenimenti, ma anche per gli altri segnalati.
Vincenzo Nadile
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