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Pianto di prefiche, al seguito di un corteo di fauni addobbati con motivi vegetali e pezzi di carne, scandisce il triste trapasso di Carnevale, che porta con sé l’opulenza e la gioia della tavola. Per gli abitanti di San Nicola da Crissa la festa dell’abbondanza per antonomasia è stata tradizionalmente, e lo è ancora, uno dei momenti più importanti dell’anno. Questa singolare festa – raccontata dall’antropologo Vito Teti per la Rai ne “La morte del Carnevale” (1979) – rappresenta un contesto “sovversivo”, un’Agorà locale, dove si disvela il riscatto della classe subalterna attraverso la farsa paesana: l’atto politico più alto promosso dalla comunità.
A Carnevale tutto è possibile. E dall’alto di un balcone che si affaccia su una piazzetta, l’oratore del popolo dà l’estrema unzione al defunto (un fantoccio adagiato su una portantina in legno) esibendosi con uno sproloquio in rima e osceno, ma degno dei comici della Commedia dell’Arte: «Domus mea Domus mea, ca mi vinna la diarrea… Quando seppi del decesso io scappar volevo al cesso ma ahimè non feci in tempo, ca mi vinna la diarrea pe lu schiantu e lu spaventu. E scappai a lu lettu toi cchjiù veloci di lu ventu/[…]/Ti chicài sup’a lu lettu culli chiappi n’pecuruni. Ntra lu grupu t’azzipparu deci metri de curduni».
Si celebra così l’oltraggio alla salma simbolo dell’abbondanza, all’interno di un contesto inteso come spazio di protesta e denuncia sociale, dove i “miserabili” guardano in faccia e deridono chi ha avuto la presunzione di morire per eccesso alimentare.
A San Nicola da Crissa fino agli anni 50 i festeggiamenti della tradizione carnevalesca duravano quattro settimane, con l’imperatore Carnevale portato in trionfo fino al giorno di martedì grasso (di l’azata), in cui si officiava il rito funebre di seguito alla tragica morte.
La farsa e l’alimentazione smoderata – coincidente con l’uccisione del maiale – cambiavano le abitudini del popolo, che si scopriva completamente disinibito e lontano dalla monotonia quotidiana. Nell’intervento di Bruno Galati (Brunu de Betta) si poteva assaporare la nuda critica ai politici e potenti del posto, accusati di essersi spartito il paese «come fette di melone». A questo punto imprecare nei confronti di chi aveva commesso questo crimine era un diritto acquisito e di seguito si invocava la legge affinché punisse finanche amici e parenti.
Durante il periodo della festa – come descritto nel documentario di Vito Teti – la protesta, oltre a denunciare i fatti della vita amministrativa, puntava il dito anche contro l’altra faccia della società opulenta, quella dedita alle diete e ai digiuni, lungi dal popolo che si ingozza di carne di maiale. In un certo senso, anche un grido contro la società clericale. Pianti, canti, balli e scene di teatro popolare, partivano dal Circolo Arci, dove si organizzava l’evento, e si protraevano lungo tutto il paese. Nel corteo erano sempre presenti personaggi del teatro popolare come i confratelli, il prete, il medico, il diavolo, ecc. La processione proseguiva nel suo lungo cammino accompagnata da litanie inneggianti al cibo e alla figura di Carnevale, in una sorta di parodia della liturgia ecclesiastica.
In passato, questo momento di festa per il paese faceva emergere fortemente la solidarietà tra i membri della comunità contadina. Come racconta un’anziana signora – nel momento in cui le viene posta la domanda su cosa si mangiava un tempo a Carnevale – molte famiglie erano disperate e pativano la fame. Quando non si nutrivano di ortaggi andavano in cerca di erbe commestibili da preparare per la famiglia. Ma a Carnevale potevano entrare liberamente nelle case di chi aveva cucinato carne in abbondanza per averne una porzione.
In quel periodo persino la donna si emancipava, abbandonando il suo stato di subalternità all’interno della famiglia. Durante l’anno, a parte gli incontri con i parenti, erano pochi i momenti di vita sociale per le donne (a San Nicola come nel resto della regione), che in occasione dei festeggiamenti del Carnevale trovavano il modo per incontrarsi con le amiche e per salutare gli emigrati rientrati per la festa. Tutti insieme riuniti per celebrare la figura mitica di Carnevale, capace di scacciare ogni tabù.
Rappresentato con un fallo enorme, simbolo di prosperità come le ermi priapee, alla fine della festa il corpo del fantoccio viene bruciato e sacrificato sotto il pianto incessante delle prefiche. La comunità bruciando Carnevale si purificava eliminando il male, autodenunciandosi al fine di favorire un nuovo anno produttivo in agricoltura. Finita la festa e in attesa di rispettare il periodo della Quaresima, non restava che farsi un’ultima abbuffata per onorare il defunto imperatore: «Certu fu la morti tua chi mi dezze l’occasioni pe mu tornu a lu paisi pe m’assistu a li funzioni: mu ti lodu, mu ti ciàngiu, mu t’assistu all’agonia… mò, dunatimi mu mangiu, ca su chjìnu d’animìa! Preparatimi nu porcu, […] na frittata de cent’ova, n’ottantina de ricotti. E braccettu accantu a mmìa Berlinguer e Andreotti. Quandu ‘nchiani ‘n Paradisu prega tu Cernelevari, pe mmu fannu na riforma, mu ni caccianu li corna. Pe mu vàscianu li prezzi, pe mu ‘nchiana la penzioni… Domus mea, Domus mea, mu ndi passa la diarrea».
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