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L'episodio più emblematico riguardante l'occupazione delle terre incolte fu l'eccidio di Melissa nel 1949, dove - oltre ai feriti - tre giovani caddero colpiti dalle forze dell'ordine. Quel sabato 29 ottobre erano giunti con i propri compagni nella zona di Fragalà, muniti soltanto di attrezzi agricoli, per coltivare un pezzo di terra e sfamare i propri familiari. Madri imbracciati i forconi lottavano per la sopravvivenza. Ma l'ideale di uguaglianza e di libertà che ritenevano d'aver raggiunto veniva infranto dai poliziotti chiamati ad intervenire dallo strapotere degli agrari. Nella stessa provincia, precedentemente, avevano invaso le terre migliaia di altri lavoratori a Crotone, Strongoli e Isola Capo Rizzuto. Dopo la strage di Melissa, nel 1950, l'occupazione si estese fino ad Arasì, Barritteri, Bova, Cannavà, Cannavò, Canolo, Caulonia, Focà, Gioia Tauro, Melicuccà, Messignadi, Molochio, Ortì, Palizzi, Palmi, Polistena, Rosarno, S. Ferdinando, S. Martino, Seminara, Stignano, Straorino, Taurianova e Tresilico.
In un volantino firmato "Il Contadino", distribuito nella Piana di Gioia Tauro, riportato in “Nascita di una colonia” di Nicola Zitara, si legge testualmente: "Compagni, contadini della provincia di Reggio Calabria!
Lunedì 6 marzo i vostri fratelli di fatica e di speranza di Rosarno, S. Ferdinando, Gioia Tauro, […] per la prima volta nella nostra provincia sono scesi in lotta per rivendicare il diritto al pane e al lavoro occupando le terre incolte e malcoltivate, gli uliveti e gli agrumeti dei grossi proprietari delle loro zone, così come hanno fatto i vostri fratelli di Catanzaro e Cosenza. Essi chiedono la vostra solidarietà e vi invitano ad unirvi nella lotta in modo che sia certa la vittoria contro gli agrari sfruttatori delle loro e delle vostre fatiche e sia dato inizio alla riforma agraria, contemplata nella Costituzione Repubblicana, ma negativi della Democrazia Cristiana e dal governo dei ricchi".
In particolare Caulonia poi, con la vicenda della banda Cavallaro ben descritta ne “La Repubblica rossa di Caulonia” (Sharo Gambino 1978) e S. Martino di Taurianova, organizzati dalla Camera del Lavoro, un paio di decine di contadine si recarono nella località "Figurelle”, dove limitarono un vasto appezzamento di terreno con dei pioli ed iniziarono a potare gli olivi. Furono disperse dai Carabinieri che riuscirono a rilevare i nomi di alcuni lavoratori per denunciarli. E anche in questo caso la maggior parte dei nomi era al femminile.
Dopo il processo e la delusione, cessarono nella Piana le invasioni delle terre, furono scacciati con le armi ed i campi si macchiarono di sangue. Hanno, quindi, intrapreso in massa la via dell'esilio - rappresentata dall'emigrazione - con le valigie legate con lo spago; hanno sbattuto sul suolo i tacchi per liberarsi delle ultime tracce di terra e per non tornare; hanno conservato nel portafogli le immagini dei propri cari e quelle dei loro Santi. Sono partiti arrabbiati e con le lacrime agli occhi, lasciando la ciaramedha nel cassone delle patate, fieri delle loro antiche origini. Sono rimasti i vecchi e i bambini a pregare e ad implorare un prossimo ritorno. E le donne. Le vedove bianche. Donne forti, che ogni volta che il marito tornava dalla Germania diventavano gravide di un altro figlio da crescere. Da sole. Spesso li picchiavano spietatamente i figli, per educarli, o per sfogare la rabbia di una situazione sicuramente non bella. I pochi soldi del vaglia che arrivava a inizio del mese. Adatte ai lavori più umili, più faticosi. Partivano le squadre di donne a Serra alle quattro di mattina verso la montagna, per portare una pietra in testa o un pezzo di legno. ‘Ntesta. E magari sulle spalle il fagotto con il neonato. Ai bambini, per farli dormire in loro assenza, quando ancora alcune cose non si capivano, davano un decotto di papavero detto “la papagna”, spesso con effetti deleteri per i pargoli. C’era qualcuna che camminando faceva una calza ai ferri, e poi arrivavano in paese e ripartivano, perché un viaggio era poco. Quelle fortunate con il marito accanto, spesso e volentieri erano oggetto di botte. A Serra, ma penso in tutta la Calabria, c’era spesso, nelle cantine, il vantarsi di quante botte avevano dato alla propria moglie la sera prima. Anche amate, naturalmente. La poesia d’amore calabrese è tra le più belle del mondo, ve lo dice un calabrese, poco obbiettivamente pensando. Dimenticate. Se dovessi immaginare una Calabria viva, la penserei donna. Madri di figli morti ammazzati o spariti ingoiati dalla lupara bianca. Mia Madre e la Madre di mio figlio. Mogli di latitanti. Con il burka ancora oggi spesso e volentieri. Le donne che ci hanno portato “vrasciuoli” e caffè quando abbiamo occupato il Municipio per la salvezza del nostro Ospedale. Speriamo che non se ne accorgano gli americani, che sennò per portarci la democrazia bombardano anche noi. Come l’Afghanistan.
(foto: dipinto di Enotrio)
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