Giovedì, 28 Novembre 2013 15:23

Artista per caso. Intervista a Mike Arruzza

Scritto da Sergio Pelaia
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«Ma chi? La zia Giuditta? Abitava proprio qui vicino. Vi accompagno». Quando scese dalla sua auto, dopo aver chiesto indicazioni a quella donna anziana e minuta, Mike Arruzza non credette alle sue orecchie. Di scherzi del destino, in verità, l'artista ne ha dovuti fronteggiare tanti, ma mai avrebbe pensato che la prima persona incontrata al suo arrivo a Calabricata potesse essere una diretta discendente di Giuditta Levato.

In quella frazione di Sellia Marina Arruzza non c'era mai stato: il maestoso quadro sull'assassinio della contadina – uccisa all'età di 31 anni, nel 1946, quando era incinta del suo terzo figlio, durante le lotte per la terra tra braccianti e latifondisti calabresi – lo aveva infatti dipinto facendo leva sulla sua fervida immaginazione, partendo da ciò che aveva letto sul movimento contadino dell'epoca. E così una volta giunto sul posto, dopo aver parlato a lungo con la nipote di Giuditta, la sua sorpresa crebbe ancor di più quando vide che quelle pianure coltivate, circondate da colline verdeggianti, erano esattamente come lui le aveva immaginate e riprodotte su tela.

Nato a Dasà, nelle Preserre vibonesi, Arruzza ha vissuto negli Usa, a Roma, a Milano, e proprio nel capoluogo lombardo, anche qui per una circostanza casuale, ha cominciato a dipingere. L'episodio è tra quelli riportati dal giornalista Pietro Comito nel suo “Arruzza - Storia vera di un vero artista” e il pittore, considerato uno dei più grandi tra i calabresi contemporanei, conferma che tutto cominciò con una sfida scherzosa, quasi dal sapore goliardico. Carlo Salis, un ragazzo svizzero appassionato di musica – come Mike – e di pittura, lo fece assistere alla creazione di «un'opera d'arte moderna». Il giovane calabrese, che lo osservò impastricciare i colori con le dita e delinearne i contorni a casaccio, rimase visibilmente perplesso, così Salis lo sfidò a fare altrettanto. Arruzza lì per lì non lo prese sul serio, ma dopo qualche giorno si cimentò dipingendo una Madonna ispirata ad un'opera di Raffaello di cui conservava una cartolina. Quando mostrò il quadro all'amico svizzero, dimostrandosi lui stesso dubbioso sulle sue capacità artistiche, Salis stentò a credere che l'avesse fatto quel trentenne di origini calabresi. Il talento di Arruzza invece, secondo il giovane svizzero – che sarebbe diventato a sua volta un artista apprezzato – era evidente, dunque lo convinse a continuare.
 
Non era passato neanche un anno da quella sfida, che Arruzza stava già esponendo le sue opere alla Old Town Gallery di Stamford e, nel 1973, alla Douglas Gallery di New York. Da lì non si è più fermato: ha creato oltre 700 opere, con uno stile diventato inconfondibile per la capacità di far rivivere immagini e colori, ricordi e suggestioni della civiltà contadina che aveva vissuto negli anni dell'infanzia. Alla fine degli anni 70 è tornato nella sua Dasà, dove ha conosciuto Iride, che sarebbe diventata la madre dei suoi figli, e qui è rimasto, dividendosi tra l'insegnamento di educazione musicale nelle scuole pubbliche e il piccolo laboratorio ricavato dalla mansarda di casa sua, dove trascorre gran parte delle sue giornate.
 
Lei ha girato il mondo e ovunque sia andato, oggi, c'è una traccia indelebile della sua arte. Sapeva, quando è tornato in Calabria, che sarebbe rimasto qui?
«Ho il sangue bollente calabrese e, dovunque sono andato, ho sempre sentito un legame fortissimo con la mia terra. Quando sono tornato non credevo di restare. Mi ero appena licenziato dalla casa discografica in cui lavoravo all'epoca, poi qui ho incontrato mia moglie Iride che mi ha messo dei blocchi di cemento ai piedi – spiega ridendo, ndr – e non mi sono più mosso».
 
Nella sua pittura c'è sempre un richiamo alla terra, alle radici, alla civiltà contadina e alla sapienza popolare. Un mondo antico: crede ne sia rimasta traccia nella Calabria di oggi? 
«Forse ce ne sarà qualche traccia, in qualche angolo remoto, ben nascosto. Ma se c'è, è destinata a sparire, anche dalla memoria. I miei ricordi della vita contadina mi rimandano ad una sensazione di semplicità, pulizia, limpidezza. Da bambino, quando andavo appresso a mia madre che portava sulla testa un grande fascio di canapa, restavo estasiato a guardare gli uomini e le donne che lavoravano nei campi. Quella dignità, quel senso del sacrificio, non esistono più. Non c'è documentazione dietro la mia arte: è tutta lì, nel mio ricordo, che cerco di proteggere dalle storture che la modernità ha prodotto. Il ricordo nell'arte diventa più forte della realtà stessa. Adesso, per esempio, sto dando sfogo alla mia passione per i giochi che si facevano in strada, ormai dimenticati: io li ricordo, li sto dipingendo tutti».
 
Lei era un musicista ancora prima di scegliere di dipingere. Quali sono le differenze nel suo approccio alla musica e alla pittura? Capita che una forma d'espressione sia fonte d'ispirazione per l'altra?
«Difficile descrivere a parole cosa succede nel momento dell'ispirazione, non lo capisco neanch'io. Per me tutto nasce a livello inconscio. La musica spesso funziona da stimolo. Ascolto Bach, Beethoven, Smetana. Se devo essere sincero la musica “allegra” non mi ispira granché. Invece, per esempio, adoro le marce funebri, mi caricano di pathos, mi fanno ribollire il sangue e mentre dipingo, ascoltandole, mi estraneo totalmente dal mondo. Ma capita anche, dipingendo, che mi venga in testa qualche motivetto, che poi scrivo subito sul pentagramma».
 
La generazione del dopoguerra ha forgiato uomini e donne che hanno segnato la storia del Novecento. Crede possibile oggi una nuova rinascita sociale e culturale? Le giovani generazioni hanno la forza e gli strumenti per metterla in atto?
«No, purtroppo, sinceramente, non credo che ci si possa risollevare. Il degrado che ci circonda è inesorabile. Qui lentamente si muore. Oggi chi parte non torna più. Vedere dei meravigliosi centri storici quasi completamente disabitati mi dà i brividi. Anch'io avrei potuto stare altrove, avevo tante alternative anche apparentemente più convenienti, invece sono tornato». 
 
Per anni ha insegnato musica nella scuola pubblica. Che idea si è fatto delle generazioni cresciute nel nuovo millennio? C'è qualcuno che si è rivolto a lei per imparare, per chiedere consigli o anche solo per osservare o trarre da lei qualche spunto di creatività?
«Qualche ragazzo mi segue, sì, ma solo su facebook. Per loro si ferma tutto lì. Ho la sensazione che accettino solo ciò che gli si presenta già pronto, cucinato e apparecchiato. Il benessere economico ha creato questa mentalità, mentre adesso l'unica cosa che può salvarci sarebbe il ritorno alla terra. Non si può certo delegare il futuro del territorio a questa classe politica, bisogna mettersi in gioco in prima persona. Fa male vedere che i nostri ragazzi accettano di fare gli schiavi altrove mentre questa terra, abbandonata, avrebbe tanto bisogno di loro».
 
Sono rimasti pochi i contadini, oggi. In compenso c'è una nuova colonizzazione mirata a sfruttare le risorse naturali del territorio. Può l'arte essere una via d'uscita, quantomeno verso la consapevolezza della ricchezza che questi luoghi custodiscono?
«È quello che spero. È questa speranza che mi spinge ancora a dipingere».
 
 
(pubblicato sul Corriere della Calabria, n.126)
 
foto di Salvatore Federico
 

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