Sabato, 17 Giugno 2023 12:22

Serra non è un paese per vecchi né per giovani

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Le serresi e i serresi (tanti, inevitabilmente sempre di più) vanno a morire a Vibo, a Soverato, a Catanzaro. Qualcuno anche altrove, da qualche altra parte. Vanno anche a curarsi a Vibo, a Soverato, a Catanzaro, soprattutto quando la malattia li sorprende all’improvviso (perché quando c’è il tempo forse meglio ancora più lontano e più lontano del lontano). Qui, quando il malore è serio e prende di colpo, dipende tutto dalla lotteria dei posti letto, da come girano i dadi, dal numero della roulette su cui si posa la pallina e che il croupier chiama. Sperando che ad accogliere i serresi e le serresi non sia una barella in un corridoio o un’attesa troppo lunga, perché quando si va a finire in un ospedale un letto vero e proprio ci vorrebbe, una stanza possibilmente non troppo affollata, qualcosa che somigli a una condizione in qualche modo imparentata con l’umano. Perché è quando l’uomo è più fragile che di più umano c’è bisogno, di più parole e più attenzioni, di carezze anche. E certo che c’è l’umanità dei medici e degli infermieri, ma servirebbe pure un contesto umano per quell’umanità e il sovraffollato di un ospedale umano non è, con il troppo caldo che toglie il respiro e i troppi odori che si mischiano, quelli dei corpi e quelli dei farmaci e quelli del chiuso e dell’aria che non circola. Poi ci sono anche quelli che muoiono a Serra, perché la morte li prende all’improvviso e allora niente traffico di ambulanze per Vibo, Soverato o Catanzaro, niente ambulanze per qualche altra parte. Oppure che si curano o vi muoiono perché nel gioco crudele del caso quel posto letto è proprio a Serra in quegli uno o due reparti che ancora possono ricevere i pazienti. E pazienti (in un altro senso) lo sono davvero le madri e i padri di Serra perché pure per nascere si va altrove e niente Serra come luogo di nascita all’anagrafe, niente Serra negli elenchi degli alunni nelle scuole. Niente Serra per nascere e niente Serra per morire.

Ma

E si sa bene e nessuno lo pone in dubbio che ci sono le compatibilità economiche e finanziarie e che c’è la crisi demografica e che l’età della vita si è allungata, che il sistema sanitario è al collasso e che i reparti nelle periferie rischiano di essere pieni di medici e infermieri e vuoti di degenti (anche se poi si chiamano i medici cubani per i rimpiazzi), che non si può tenere aperto un punto nascite con così pochi nascituri e che ci sono i tagli che prima il governo “x” e poi il governo “y” hanno pensato bene di fare e che e che e che. Ma. 

Non è un paese per vecchi né per giovani

Ripartiamo dal “ma”. Ma questa non è un’analisi economica né uno studio di fattibilità né nulla che abbia a che fare con numeri, grafici e tabelle. Questo è uno stato d’animo e anche gli stati d’animo dovrebbero avere qualche diritto all’esistenza per quanto soffocati da grafici, numeri e tabelle e da proiezioni di dati e cifre (quasi sempre con il segno meno). E lo stato d’animo per cominciare dice che in tanti hanno paura di invecchiare in un posto come questo, dove non sai se, dove non sai dove, dove non sai come. Non sai se trovano o non trovano un posto libero per i tuoi o per te e non sai dove ti portano e se il dove è più lontano o più vicino (sempre ammesso che ci sia un dove) e non sai come ti portano perché, insomma, pure le ambulanze, ora sì e tra dieci minuti no, pure loro nella lotteria, nel gioco ingiusto e crudele del caso. Questo non è un paese per vecchi, come dice il titolo geniale di un romanzo di Cormac McCarthy, ma non è neanche un paese per giovani, perché se i vecchi, tante volte, sono costretti ad andarsene a morire altrove, i giovani tante volte scappano e più non tornano e non ne vedi più in giro i volti e se prima ti chiedevi dove sarà andato a finire “x” o che fine avrà fatto “y” ormai neppure te lo chiedi più, perché dai per scontato che “x” o “y” se ne sia andato o andata da qualche altra parte, che ci sono altri luoghi sulla terra in cui “x” o “y” ha potuto trovare il suo posto, quello dove starci e in cui vivere. Ecco, stare e vivere qui (e persino morire qui) è diventato un giorno dopo l’altro più difficile e lo stato d’animo è questo e anche gli stati d’animo hanno diritto all’esistenza.

Il vicinato, la ruga, la voce

E tra le tante cose che pensi è che la vita in un po’ di decenni è cambiata (come sempre cambia, del resto, ma ogni generazione non può fare altro che impicciarsi dei propri cambiamenti) e che c’erano i figli e le figlie ad accudire i padri e le madri quando invecchiano e i nipoti un po’ più grandicelli ad andare per il pane o a comprarti quella cosa che in casa ti mancava. E c’era il vicinato, c’era la ruga, c’era la voce che si spargeva di porta in porta. E ora, dicono in molti, ci sarebbe bisogno di case per anziani, ci vorrebbero reti di assistenza, ci vorrebbe che qualcuno pensasse che, forse, non è un affare privato di chi invecchia il fatto di invecchiare, perché uno che invecchia è uno che invecchia, ma tanti che invecchiano è una società che invecchia e se è una società è un affare di poteri pubblici, di interventi pubblici, di risorse pubbliche, quando non ci sono più i figli, non c’è più il vicinato, non c’è la ruga. E anche qui numeri, grafici e tabelle possono far vedere altro, perché ci sono sempre quei segni meno a dire che non si può e che non è cosa e che dove si prendono i soldi per tanti vecchi, ma anche qui è uno stato d’animo e guardarsi intorno e davanti e non capire cosa si scorge non è una meraviglia di stato d’animo. Perciò, non è un paese per vecchi e neppure un paese per giovani che, intanto, devono vivere la loro vita e da quando nascono è come se ci fosse l’imprinting dell’altrove a segnarli, visto che prima c’era la “mammina” a farli nascere e le madri delle madri sapevano l’esperienza del far nascere e la utilizzavano quell’esperienza (con la “mammina” o senza) e dopo c’era stato l’ospedale dietro la porta di casa per i parti e non più la “mammina”, ma ora, ora si va a Vibo, a Soverato, a Catanzaro per morire e si va a Vibo, a Soverato, a Catanzaro per nascere. Ora si nasce già nell’altrove e quell’altrove resta per tutta la vita e a tanti rimane come imprinting, come una specie di “destino” che conosci subito e che hai a disposizione per coglierlo quando serve. E quando lo cogli e vai via e più non torni non c’è più Vibo, non c’è più Soverato, non c’è più Catanzaro, ma decidi di vivere e poi morire nell’altrove, in altri luoghi e in altre stanze.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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