Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
La morte come dimensione comunitaria, fatto sociale, antropologico e culturale. Domani, a partire dalle 17, a Palazzo Mannacio a San Nicola da Crissa, diversi studiosi si riuniranno per tenere il seminario “Dialogo ininterrotto con i fratelli assenti” (qui l’articolo). In attesa dell’evento e della festività di Ognissanti, vi proponiamo un racconto dell’antropologo Vito Teti, sintesi del suo singolare rapporto con la morte.
Avevo cinque anni, era l’estate del 1955, quando cominciai a capire che le persone che ti stanno vicino e a cui vuoi molto bene se ne possono andare in un posto sconosciuto, misterioso, magico da cui non torneranno più o torneranno nei sogni e nei ricordi, nei pianti e nelle nostalgie di chi resta. Mio nonno Peppe, una figura imponente di «americano», che aveva fatto una certa fortuna negli Stati Uniti, e al ritorno in paese aveva acquistato una casa e un podere, avviato una piccola impresa di costruzione, e che mi portava nella sua cantina di vino, gestita dal figlio, zio Michele, era in una bara al centro della stanza della casa materna dove abitavamo, mentre mio padre era a Toronto. Era stato a letto per qualche mese, si ripetevano le visite del medico e degli amici, dei parenti e di zio Michele e zio Antonio, ma io non avevo capito che un brutto male, come piangeva mia madre, se lo sarebbe portato via ed io non sarei più andato, con la mia mano stretta nella sua, a vedere giocatori, bestemmiatori, burloni, beoni. [Continua dopo la foto].
La nonna Felicia e mia madre, in quella stanza al primo piano che si affacciava sulla strada, piangevano ora in maniera pacata ora con un senso di disperazione ed era quando arrivavano persone, amici e parenti a trovare il nonno defunto. Le nenie e le lamentele di nonna e mamma ripercorrevano la vita del nonno, il suo attaccamento per la famiglia, le fatiche e i viaggi da lui affrontati, l’amore per me e per gli altri nipoti, la sua vita ed io ascoltavo turbato e cercavo di dire a nonna e a mamma di non piangere e loro mi prendevano sulle gambe, si quietavano per un po’ e mi facevano accompagnare fuori a giocare con gli amici. Non avevo voglia di uscire da quello che poi avrei saputo chiamarsi cordoglio e sentivo che anch’io dovevo partecipare a quell’evento come gli altri di famiglia. Mio papà, che io non avevo ancora visto, era in Canada e in qualche modo nella mente lo avevo accostato a un defunto. La morte e la partenza erano una sorta di bilancia, come diceva un detto del paese. Da grande avrei capito che l’emigrazione era molto simile alla morte e che in fondo l’intero paese cominciava a morire con le centinaia di persone che lo lasciavano per non più tornare.
Le campane e le campanelle della chiesa matrice, quel giorno della morte del nonno, mandarono il suono a mortorio e poi giunsero i fratelli della Congrega del Crocefisso, con il prete. La gente diventò più numerosa, più contrita, più affettuosa e ricordo un grande flusso di uomini e donne e i pianti ad alta voce di mamma e nonna e il pianto più contenuto degli zii che non avevo mai visto piangere. Venne chiusa la bara e una decina di congregati se la caricano, con attenzione e con devozione, sulle spalle ed io immaginai che si stavano portando via nonno e non capivo il perché e, come se li individuassi responsabili, tirai un calcio nello stinco a un fratello che mi sorrise e mi fece una carezza. Avrei imparato ad ammirare quel gesto e avrei capito che i fratelli erano dei vicari dei defunti che accompagnavano nel loro ultimo viaggio. Scendemmo dal primo piano nella strada, c’era un corteo infinito di gente, seguivo mamma che alternava lacrime lente e pianto sostenuto, ricordi a parole, e percorremmo la discesa della zona alta. Mi sentivo perso, triste, e un po’ importante. Qualcuno dei miei disse a degli amici di farmi compagnia fino alla Chiesa, dove c’era la statua del Crocifisso morto, e poi di riportarmi a casa senza andare al cimitero. Mi feci convincere e tornai a casa: c’erano altre donne e parenti che piangevano e mi accolsero. Qualcuno portava caffè e biscotti e latte. Era quello che gli studiosi ed io avremmo studiato come il cunsulo o ricunsulo: l’usanza di portare bevande e cibo ai familiari del defunto che dovevano interrompere l’ordine di sempre, non potevano accendere il fuoco e cucinare, dovevano portare il lutto. Per molti poveri, quelle offerte erano anche un modo di spezzare la fame e comunque rivelavano forme di solidarietà e vicinanza, che rendevano le famiglie meno sole. La morte era un fatto comunitario e non a caso, per evitare contagio, al passaggio del defunto bisognava chiudere porte e finestre, evitare rumori o schiamazzi.
Poi tornarono tutti dal cimitero: mamma, nonna, zii e cugini si disposero davanti alla scala e furono lunghi abbracci, strette di mano, parole di incoraggiamento, tanti coraggio, mi dispiace, come era bravo compare Peppe, come era onesto Peppe Iozzo. Solo più tardi ritornammo a casa, io guardavo dall’alto del balconcino, e molte donne e i parenti restarono seduti nella nostra abitazione. Avrei sentito mia madre ripetere un tenero e nostalgico “Padre mio bello” per mesi e per anni. E quando cinque anni dopo, una volta tornato mio padre da Toronto, si ammalò anche la nonna e se ne andò il pianto divenne: “Mamma mia e papà mio bello”. “Comare Caterina”, le diceva la moglie di un carabiniere, “fatevi coraggio, perché piangete sempre ogni giorno, vi capisco, ma cercate di rassegnarvi”. Qualche anno dopo quando morì la sua mamma la signora De Luca andava da mia madre e le diceva: “Comare Caterina, ora capisco perché piangevate. Avevate ragione”. I morti, in fondo, non morivano mai, tornavano nei sogni, con le loro richieste di cibo e di preghiere, nelle messe, per la festa dei morti, a Natale, quando si mangiava e si donava in loro memoria e in suffragio per le anime del purgatorio. Tornavano quando nelle rughe piene si recitava il rosario o quando sera di domenica, durante l’antico rito, della Congrega, i fratelli, con camice e mantellina, dedicavano il loro pensiero ai fratelli assenti. Ancora oggi i defunti vengono ascoltati nel sogno, tornano per chiedere qualcosa o per annunciare fortune e pericoli, e chi non sogna il proprio defunto si sente triste, abbandonato, quasi rifiutato.
Da quel lunghissimo periodo infantile, ogni anno, molte volte al mese, ho avuto la fortuna di ascoltare mia madre ripetere: “Come oggi è morto tuo nonno, come oggi tua nonna, come oggi il fratellino che non ho conosciuto, come oggi la zia…”. E tutto l’album di famiglia veniva rinnovato e rinverdito nel tempo come se i defunti fossero ancora lì ad ascoltare, ad esigere voce. A volte questa nenia materna, quando andavo di fretta, mi provocava un qualche sconforto: quel lutto che non passava mai e che sempre si rinnovava mi disorientava, e col tempo ho capito, però, la verticalità delle storie, almeno nei piccoli paesi, dove nessuno muore fino a quando viene ricordato.
Per nonna piansi a lungo, ormai capivo meglio cosa significava la morte, e scoprii anche il senso di colpa per le mie monellerie e cattiverie di bambino. Ricordo che mi muovevo dalla casa in cordoglio agli orti dove andavamo a giocare con gli amici e i cugini. Era un agosto afoso e ricordo il panno bianco che proteggeva nonna dalle mosche, la mano di mia madre che le scacciava e che ogni tanto sistemava le figure dei santi e il paternoster e qualche altro oggetto che nonna portava con sé. “Mamma mia, diceva mia madre, non avrai paura stasera al cimitero? Come farai? Madonna mia di Mater Domini papà e mamma li hai voluto con te nel mese di agosto, quando si celebra la tua festa, a cui erano devoti”. Ricordo adesso biscotti, caffè, succhi, brioche e la mia sorellina di un anno, che nonna aveva tenuto in braccio, e che qualcuno portava dai parenti e ogni tanto da mamma perché la allattasse. [Continua dopo la foto].
A dodici anni scoprii la crudeltà di vedere morire Mario, il mio amico e vicino di casa, con cui i miei cugini ed io avevamo fatto mille giochi e mille sogni. Quando le donne cominciarono a dire che Mario stava male e poteva anche andarsene, ci stringemmo come i tanti piccoli passeri che d’inverno catturavamo. Realismo magico dei bambini: andavo alle Castagnerelle e cercavo di capire il destino di Mario dal rumore della brezza estiva tra gli alberi, dal silenzio pomeridiano di un luglio afoso, dallo scroscio della fiumara di Dorico, dal numero di cinguettii degli uccelli. La magia non funzionò. Restammo soli con il nostro dolore, muti con il nostro stupore. Adesso ho come la fantasia che in realtà, come pensavo già allora, Mario non fosse davvero morto, ma fosse soltanto partito per un mondo lontano.
E nel tempo avrei assistito al lutto dolente per la scomparsa di paesani che se ne andavano giovani, di papà di amici, di altri vicini di casa. La morte era, in parte è nei paesi, una sorta di compagna di vita, un’esperienza radicale e non a caso tutta la vita sociale e culturale, ma anche relazionale, anche materiale, l’organizzazione dello spazio, il Calvario, le croci, venivano allertati e alterati dalla campanella che annunciava una morte, dai fratelli che accompagnavano i defunti, dalle visite che si facevano a casa, dal ricunsolo. Ancora negli anni settanta e ottanta il cordoglio avveniva secondo modalità tradizionali e antiche e soltanto lentamente si andava affermando una certa “modernità”. Nel tempo ho conosciuto, in città, in giro per il mondo, altri modi di piangere il morto, di superare il cordoglio. Nel tempo ho conosciuto il dolore per la scomparsa di figure a cui volevo bene e che avevo conosciuto solo attraverso la televisione e i giornali. Nuove forme di elaborazione del cordoglio e nuove strategie del ricordo dovetti elaborare quando sentii dell’uccisione di Kennedy e poi, quella per me più dolorosa, di John Lennon. Il paese diventava mondo e il mondo paese.
A Toronto, dove c’era il doppio della mia comunità di origine, avevo tutti i miei compagni delle elementari e una volta, alla fine degli anni ottanta, arrivai in tempo per assistere ai funerali del padre del mio amico del cuore d’infanzia, Vincenzo. Il lutto non avveniva nelle case, era organizzato e gestito, come in tutte le metropoli, da “Case del funerale”: eppure, per il padre di Vincenzo, la sala mortuaria si era trasformata in un’abitazione del paese. Gente vestita a lutto, uomini e donne che piangevano e parlavano e ricordavano, condoglianze nelle case e al cimitero. Nei cimiteri di Toronto vidi le lapidi con i volti, la data di nascita e di morte, di tanti amici e conoscenti di cui non avevo memoria o di cui ero rimasto molto amico. Le feste trapiantate a Toronto, in fondo, sono anche feste dei defunti e spesse volte ho avuto la sensazione che a morire fosse l’antico paese che qui rinasceva in forme nuove. Nelle case degli emigrati di Toronto, come nelle vetrine del paese, c’erano le figure del Crocifisso e della Madonna e poi i ricordini dei defunti, quelli morti nel nuovo mondo e quelli morti nel paese. La fotografia creava illusioni di ricongiungimenti che non c’erano.
Negli anni ottanta ho perso drammaticamente due primi cugini, in giovane età (uno figlio di zio Tommaso, fratello di mio padre, si chiamava come me, l’altro Giuseppe era il figlio di zio Michele, fratello di mia madre), un amico fraterno e persone care con cui mi sono cresciuto, e ho vissuto veglie funebri, funerali, pianti, dolori acuti. Una volta un’amica settentrionale si lamentava di aver perso due giorni di tempo per la morte del padre. Io non so se ho perso tempo, ma ho passato ore e giorni per partecipare sempre, quando sono o torno in paese, ai funerali. Ed ho conosciuto il lutto per la morte di amici nella città e il dolore di non essere presente all’accompagnamento di persone a cui ero legato.
Ho accompagnato mio padre per decenni nella lunga malattia. E a ogni partenza mi sentivo in colpa e terrorizzato che potesse morire in mia assenza. Morì quando ero in paese, ma non intercettai il suo ultimo sguardo. Al capezzale del letto d’ospedale continuava a chiedere acqua di Dorico, la fontana della sua infanzia. Nel mondo tradizionale i moribondi se ne andavano dopo avere bevuto e i defunti tornavano per cercare acqua, rivelando una grande sete, una grande nostalgia della vita. Tutto il folklore meridionale, italiano ed europeo racconta di una vita che non finisce con la morte. Porgo a mio padre un bicchiere pieno d’acqua e gli dico: bevi, papà, l’acqua di Dorico. Lui beve, si rasserena per un po’, poi riprende a chiedere acqua di Dorico. Il corpo di mio padre è ormai secco, prosciugato. Dobbiamo tornare a casa. Non voglio che muoia in ospedale, fuori da casa. Sull’ambulanza continua a chiedere acqua di Dorico e stringendogli la mano, lungo i chilometri che ci separano dal paese, gli dico che stiamo tornando a casa e berrà acqua di Dorico. Quando entriamo in paese gli sussurro: “Siamo arrivati”. A casa, dove ci aspettano familiari, parenti e vicini, mio padre si quieta come se avesse davvero raggiunto l’acqua per l’ultimo viaggio. Quel viaggio che intraprende poche ore dopo essere tornato nella sua casa e alla sua acqua. Ho pensato mille volte a questo episodio. Pensavo a mio padre, al suo sentimento ultimo, estremo, sacro, dell’acqua dell’infanzia e della gioventù. Dietro la sua richiesta c’erano la storia di una terra e l’immagine dei moribondi che hanno sete? Bere era un bisogno fisiologico di una persona il cui corpo si sta prosciugando e bere quell’acqua era il bisogno culturale, affettivo, che si era affermato nell’infanzia? O quella richiesta è stata soltanto desiderio di comunicare con me con un linguaggio condiviso e con immagini familiari? Era un modo di dirmi addio congedandosi dell’acqua dell’infanzia? [Continua dopo la foto].
Per la veglia notturna si offrirono molti amici e parenti, ma risposi preferivo stare solo. Mi sedetti davanti alla bara, aspettai che tutti, mia sorella, mia madre, mia moglie e i miei figli, andassero a letto. Poi, da solo, cominciai a scrivere. Un quaderno fitto di dialoghi e di ricordi tra me e mio padre. Gli dissi tutte le cose che non avevo potuto dirgli e ascoltai quello che immaginava mi avrebbe voluto dire. Per i funerali venne tutto il paese, giunsero telegrammi e telefonate. Ascoltai voci antiche e quasi sconosciute, parole di vecchi amici e di qualche donna amata.
La morte oggi, nel mondo più vasto, conosce insieme una rimozione e una spettacolarizzazione. Ossessione e terrore della morte si trasformano in assuefazione e in indifferenza. In rimozione. Un mondo che non sa fare i conti con la morte, forse si avvicina alla sua fine o, forse, è già morto? Eppure, penso, che la vicenda di morte e rinascita (narrata anche nei riti e nelle processioni), l’esperienza delle società tradizionali di affrontare lutti individuali e collettivi, le antiche forme di pietas e di passione per gli altri abbiano ancora qualcosa da dirci, da insegnarci, in questo mondo che viaggia senza direzione e senza senso. Parlare della morte, raccontare i propri lutti, ricordare i propri defunti, può apparire agli altri noioso e stancante, lacrimevole e poco vitale. In un universo in cui i media e internet trasmettono quotidianamente uccisioni, guerre, violenze, devastazioni, teste mozzate, spargimenti di sangue, la gente sembra avere voglia di girare lo sguardo altrove, di cercare distrazione o di rimuovere.
Eppure noi viviamo anche per la morte. Non so se questo racconto abbia potuto generare tristezza, far pensare di essere di fronte a un temperamento inguaribilmente melanconico, di fronte a una persona che tende alla tristezza. Ammetto che sono melanconico, ma la mia melanconia è attiva, non è luttuosa. Ho gioito, ho vissuto, sono partito, sono tornato, ho fatto incontri e casini, ho avuto storie belle e brutte, ho conosciuto amori e tradimenti, ho gioito e sorriso, talvolta anche ai funerali. Non c’è lutto senza riso e non c’è matrimonio senza pianto: avverte un proverbio di saggezza popolare. Sono stato ironico ed autoironico, ma anche quando faccio bilanci non esaltanti sulla mia vita passata non penso mai di avere perso tempo al bar o alle cantine, o nelle occasioni tristi. Conosco troppo bene il mondo passato per poterlo rimpiangere e mitizzare, e tuttavia, rispetto ai silenzi, alle rimozioni, alla teatralizzazione, allo spettacolo della morte nei luoghi fisici e virtuali della contemporaneità, mi viene da pensare nei piccoli centri, anche invivibili, marginali, vuoti, la dimensione comunitaria della morte, anche in forme profondamente mutate dal passato, possa dare indicazioni per un antidoto alla melanconia patologica, alla solitudine che è morte prima di morire, alla mancanza di pietà che è morte dell’umano, e possa indicare, assieme ad altre pratiche che si vanno affermando là dove la vita vive e non rinuncia, la via di una ricerca di senso e di sacro che a volte sembrano quasi del tutto smarriti.
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