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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Il 26 dicembre si è rinnovato a Serra San Bruno l'antico rito dell'elezione dei priori delle tre arciconfraternite religiose, un momento in cui da secoli si uniscono devozione e democrazia ma che, molto spesso, ha anche un contorno di scontri, veleni e sotterfugi che poco hanno a che fare con il culto religioso. Per due delle tre Arciconfraternite serresi tutto è andato liscio con l’elezione a priore di Raffaele Calabretta (Assunta di Spinetto) e Giuseppe Gallè (Addolorata), mentre analoga fumata bianca non è arrivata dall’Assunta di Terravecchia, dove già nel recente passato si sono registrate tensioni che hanno portato anche al commissariamento. Questa situazione sta comprensibilmente generando discussioni e malumori tra i fedeli, che ragionano su come i numeri della “democrazia” non siano sempre garanzia di sincero e autentico attaccamento ai valori cristiani e alle tradizioni delle congreghe.
Lungi dal voler entrare nel merito di tale legittimo dibattito, proviamo qui a ricordare una memorabile pagina di narrativa e storia locale che riguarda proprio le elezioni delle Arciconfraternite. Chiedendoci sempre cosa avrebbe detto in proposito il poeta Mastro Bruno Pelaggi che, come ricorda Domenico Pisani in “Bruno Pelaggi e il suo tempo” (ConSenso Publishing, 2019), fu iscritto alla Congrega dell’Assunta nel 1871, ricoprendone la carica di segretario nel 1874 e di secondo consultore nel 1896, per poi risultare iscritto nel 1898 a quella dell’Addolorata.
Il genero di Pelaggi, Biagio Pelaia (che aveva sposato la figlia Virginia), è il protagonista di un passaggio che Sharo Gambino dedica alle congreghe in “Fischia il sasso” (Edizioni internazionali, 1974 - Qualecultura, 2008). Per il bambino protagonista del libro, cresciuto negli anni del Fascismo a Serra San Bruno, democrazia «era sinonimo di confusione, di disordine», ma una sera era stato colto d’improvviso da una «perplessità». Ce lo aveva fatto piombare proprio «mastro Biagio», falegname che abitava in via Sette Dolori nello stesso edificio (al piano di sotto) della famiglia Gambino.
«Nel profumo delle patate in procinto di essere dissepolte da sotto la coltre grigia della cenere nel braciere», il vicino di casa gli aveva rivelato che «…eppure Mussulini a cacciare la democrazia dalla Serra non c’è riuscito del tutto». L’affermazione aveva suscitato grande stupore: «Avesse detto che fuori, nella notte nevosa, era spuntato il torrido sole dell’estate, non l’avremmo guardato con più meraviglia». Si riferiva proprio alle elezioni dei priori nel giorno di Santo Stefano: «Come li fanno, con la creta?», aveva chiesto sarcasticamente il mastro. «Con le votazioni», aveva aggiunto, spiegando, rispondendo alle domande del bambino, che «chi vuole uno, mette pallina bianca e sennò è nera». E tutto questo «si chiama democrazia!».
Il successivo commento del bambino è intriso dell’innocenza e della sottile ironia che attraversa tutto il libro: «Per due o tre ore e fors’anche di più, avevo dunque vissuto lontano dal’Italia e dal duce, in zona straniera, addirittura, se non nemica, avversaria del fascismo!». Però le rivelazioni di mastro Biagio, avevo subito dopo concluso il bambino, «brillavano un solo istante, subito oscurato dalla luce radiosa del fascismo illuminato dalla mente illuminata del duce grande e potente, che ci guardava dalle pagine dei libri, da sui muri; e ci parlava per bocca dei maestri, dei professori, degli uomini in uniforme».
Un piccolo ma gustoso episodio che, forse, può fare apprezzare il vero senso di alcune tradizioni secolari – pur con tutte le discussioni e le polemiche che vi ruotano attorno – e, magari, ingenerare un minimo di buon senso in chi, forse non del tutto consapevolmente, ne inficia il reale valore popolare e spirituale.
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