Domenica, 27 Gennaio 2019 11:09

L’inferno negli occhi. La storia di Gerardo Amato

Scritto da Sergio Pelaia
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Luglio 1945, Serra San Bruno, Calabria. Un camionista porta in paese una notizia strana, inattesa. È uno dei pochi a possedere un mezzo di locomozione e per lavoro, ogni giorno, fa avanti e indietro dalle montagne delle Serre alle città della costa vibonese. Va raccontando di un misterioso incontro, ma molti sono perplessi. Dice di essersi imbattuto, «sui piani di Vallelonga», in un uomo che era andato via da Serra diversi anni prima. Un uomo che era andato in guerra, e che come tanti altri in guerra era morto. Un incidente fatale: era finito sotto un treno e le tremende ferite riportate alle gambe lo avevano ucciso in poco tempo. Così almeno c'era scritto, chiaro e tondo, in una lettera che qualche tempo prima la Croce Rossa aveva spedito a casa sua, dove lo aspettavano la moglie e i loro due bambini. E pure in una seconda lettera, questa volta anonima, erano ripetute le stesse cose: morto in un incidente ferroviario. Nessuna speranza, dunque. Almeno fino a quel giorno di luglio.

Le miserie della guerra non cambiano l'essenza di un paese e dell'umanità che lo abita, così la strana notizia riportata dal camionista passa da una casa all'altra in men che non si dica: il compaesano partito per la guerra, quello che tutti credevano morto, sta tornando nel suo paese. A piedi, perché il camionista non aveva spazio per farlo salire a bordo. Ma è lui, assicura l'improvvisato messaggero. La gente comincia a uscire di casa, si forma una piccola folla che si dirige verso località San Rocco, all'ingresso del paese. Alla testa del gruppo c'è una donna: in braccio i suoi due bambini, negli occhi la paura di un'attesa vana. Dietro di lei tantissimi parenti e amici che, increduli, a un certo punto si accorgono che l'illusione annunciata dal camionista si materializza. Una figura magra, longilinea e claudicante, compare dalla collina che domina il paese. Ormai non c'è dubbio, è proprio lui: Gerardo Amato è tornato.

Quella del 1945 non è certo un'estate come tutte le altre per gli italiani. Sulle macerie di un Paese devastato dalla guerra continuano a camminare uomini e donne che portano sulle spalle troppi giorni di dolore e paura. La resa dei nazifascisti a Caserta è passata da qualche mese e, in quei giorni, tante fragili vite si intrecciano come fili sottilissimi sul telaio della storia. Quella di Gerardo Amato è una di queste piccole storie, una delle migliaia di particelle di esistenza che, da Nord a Sud, sono servite a rimettere insieme l'Italia nel Dopoguerra. Il giorno del suo ritorno a casa, nonostante non ci fossero feste comandate o tradizioni da onorare, a Serra fu grande festa. Il padre di Gerardo, Domenico, fin quando erano rimaste aperte aveva lavorato alle ferriere di Mongiana. Poi si era messo in proprio a fare il falegname, ma la sua famiglia gestiva anche due cantine. Due piccoli locali in cui, ancora si racconta, dopo il ritorno di Gerardo si festeggiò per addirittura sei mesi. Anche altri quattro fratelli Amato erano stati in guerra e, alla fine, tutti e cinque erano tornati sani e salvi. Ma la storia di Gerardo era diversa da quella dei suoi fratelli e i suoi occhi, passata la commozione, lo testimoniavano: non aveva più lo stesso sguardo di quando era partito.

Nato nel 1911, già a 20 anni era partito per il servizio di leva. Con la divisa dell'esercito addosso aveva già girato l'Italia in lungo e in largo, ma quando sembrava che la guerra stesse per finire fu catturato dai tedeschi. Era l'11 o il 12 settembre 1943, erano passati pochi giorni dall'armistizio e lui si trovava, con il 27esimo Reggimento, sull'isola di Rodi, nel mar Egeo. Quando venne fatto prigioniero dai nazisti con lui c'erano anche altri calabresi: uno in particolare, di Gioiosa Ionica, mentre erano incolonnati per essere imbarcati sulla nave tedesca tentò la fuga, si allontanò dalla fila dei deportati e vedendo che non se ne accorgeva nessuno chiamò i suoi conterranei esortandoli a seguirlo. Gerardo e gli altri calabresi non ebbero nemmeno il tempo di comprendere le sue parole che lo videro cadere a terra, freddato da una fucilata. Così il destino continuava a giocare con l'esistenza di quel serrese, all'epoca 32enne: il suo compagno a terra fucilato e lui in viaggio verso un campo di concentramento tedesco.

Una volta tornato, Gerardo non raccontò alla sua famiglia tutto quello che aveva vissuto. Disse di essere stato deportato dai tedeschi, ma non specificò mai in quale campo. Già, di suo, non era un tipo loquace, ma parlare di quella esperienza significava rinnovare il dolore, rivivere l'incubo. Così si portò dentro l'inferno per anni, fin quando non ne fu fagocitato lui stesso: perse la lucidità mentale e, lentamente, sprofondò in un abisso di dolore dal quale non riuscì più a riemergere. Morì il 30 dicembre del 1975. I figli ricordano come spesso, nei suoi ultimi anni di vita, lo sorprendessero in preda alla disperazione, con la testa tra le mani, a ripetere ossessivamente: «Arrivano i tedeschi, arrivano i tedeschi...».

Gerardo Amato era stato internato in un campo di concentramento tedesco dal settembre del 1943 al 3 maggio del 1945, quando venne liberato dalle forze alleate. A ricostruire la sua storia dolorosa, raccontata dal Corriere della Calabria il 27 gennaio del 2016, è stato suo figlio, Salvatore, che fino a un anno prima conosceva ben poco dell'inferno che aveva vissuto il padre. «Era come un tabù – spiega – sapevamo qualcosa ma non se ne parlava mai».

Ad accendere la scintilla è stata una mostra di cimeli delle due guerre promossa da una scuola locale, l'istituto "Einaudi", che tra le storie dei serresi al fronte aveva scovato anche quella di suo padre. Il destino, insomma, aveva ricominciato a giocare, così Salvatore, dirigente pubblico in pensione, ha iniziato a cercare carte, documenti, foto. Ha passato al setaccio il fascicolo su suo padre custodito nel Centro documentale militare di Catanzaro. Ha scoperto il luogo in cui era stato catturato; ha scoperto che aveva attraversato in treno i Balcani per poi arrivare a Lipsia. Dai documenti sono venuti fuori i nomi di alcuni campi di concentramento: si parla di Buchenwald, o di qualcuno dei sottocampi nei dintorni di Weimar. Il luogo che ritorna più spesso, però, è proprio vicino Lipsia, si chiama "Stammlager IV B" e Salvatore, attraverso una corrispondenza – finora infruttuosa – con l'ambasciata tedesca in Italia, sta ancora cercando la conferma della permanenza di suo padre lì. A testimoniarlo c'è un tesserino, firmato dal «lagerfuhrer» (il capo del campo), con il suo nome e il numero di matricola 277257.

Probabilmente si tratta di un lasciapassare che serviva a Gerardo a uscire dal campo per andare a lavorare: essendo un falegname, i tedeschi lo mandavano a ricostruire case o fabbriche distrutte dai bombardamenti angloamericani. Quando fu liberato, nel maggio del 1945, da Lipsia fu portato a Bologna in un centro alloggi per reduci. Da lì prese il treno che lo portò a Pizzo e poi, a piedi, ritornò a casa. Con un intero paese che lo aspettava e con l'inferno ancora negli occhi.

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