Domenica, 21 Luglio 2019 00:14

I “segni parlanti” della cultura serrese e il dibattito che non c’è

Scritto da Tonino Ceravolo
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Tra i piccoli comuni della Calabria Serra è certamente uno di quelli a più alta densità di beni culturali materiali (luoghi di culto, manufatti artistici e artigianali, ecc.) e immateriali (riti religiosi, feste, usi alimentari), come attestano non soltanto le “evidenze” presenti sul territorio, ma pure le indagini che studiosi di diversa formazione e provenienza hanno dedicato, negli ultimi decenni, alla sua realtà culturalmente ricca e stratificata. Se ne avrà, tra non molto, ulteriore conferma in un volume sulla montagna calabrese di imminente uscita presso l’editore Rubbettino, curato da Giovanna De Sensi Sestito dell’Unical e dallo scrivente, nel quale studiosi del calibro di Mario Panarello e Gianfrancesco Solferino consacrano, da par loro, un ampio spazio all’arte e al “vernacolo del bello” serresi, a tal punto che Solferino non manca di indicare ai lettori i “segni parlanti” di quella che definisce “la koinè artistica storicamente fiorita a Serra San Bruno”.

Appare pressoché superfluo ribadirlo ancora, ma ci troviamo dinanzi a una di quelle realtà che caratterizzano in maniera non marginale, con le memorie e la storia di cui sono depositarie, un’area, un contesto storico-geografico, una regione e che, come tale, è stata riconosciuta anche dai numerosi viaggiatori che l’hanno visitata (dice nulla, per citare un caso rilevante tra i tanti, il nome di Corrado Alvaro?). Eppure, a fronte di questo incontrovertibile stato delle cose, ciò che si deve quotidianamente registrare è una sorta di “assordante silenzio” del dibattito pubblico sul patrimonio culturale del luogo, sulla sua conservazione e tutela, sul suo (possibile e auspicabile) uso intelligente ai fini dello sviluppo turistico. Né si possono considerare, in tal senso, particolarmente qualificanti iniziative estemporanee e manifestazioni episodiche o progetti in cui non si intravede uno sguardo lungo e accorto, in grado di partire dall’eredità culturale storicamente sedimentata e di diventare autentica (e pensata) programmazione proiettata nel tempo.

Insomma, un quadro generale non incoraggiante, di fronte al quale, tuttavia, non appare opportuno rassegnarsi, lasciando che le cose seguano il loro corso e che vadano, come tante volte si dice, come devono andare. Il patrimonio culturale, come il paesaggio, è un bene comune e questo implica che quel dibattito sinora assente andrebbe (con urgenza) promosso e sollecitato, facendo sì che diventi un momento di confronto ampio, che coinvolga possibilmente le università, la Soprintendenza calabrese, le associazioni, gli studiosi che hanno dedicato ricerche e studi seri al territorio, il mondo editoriale che ruota intorno alle radio e alle televisioni locali, ai quotidiani e ai giornali online. Sembra il caso, in altri termini, di fare di questo tema una delle grandi questioni da cui dipende il futuro del territorio, ben sapendo tra l’altro, pure in chiave “utilitaristica”, quale sia il contributo che il turismo culturale sta fornendo in tante parti del Paese. E naturalmente non si tratta di promuovere l’ennesimo convegno o il solito bla-bla degli addetti ai lavori, bensì, a partire da un discorso pubblico che si alimenta nei modi e nelle forme plurali tipiche di ogni pubblico confronto, di iniziare a individuare due o tre idee qualificanti che facciano da coagulo e volano per una politica del patrimonio culturale che non trascuri le sue possibili ricadute anche sullo sviluppo del turismo.

Gli esempi possibili sono tanti e si potrebbero indicare, ma non è questo adesso il punto. Il punto è di essere, innanzitutto, consapevoli che con le iniziative localistiche, di corto respiro, con le quali ce la raccontiamo tra noi, che non riescono a farsi attrattrici di nulla, non si va da nessuna parte. Nessun turista mai si muoverà (per dire) per visitare l’ennesima estemporanea estiva di pittura (cosa qualifica l’estemporanea del comune “x” rispetto a quella del comune “y”? Qual è il suo valore aggiunto?) o per assistere a un reading di poesia dei rimatori della porta accanto, eventi in grado di attrarre al più, come capita, il gruppo dei famigliari o, al massimo, quello degli amici più intimi. Si badi bene, non si sta dicendo che quei reading e quelle estemporanee non si debbano fare (ciascuno è libero di fare ciò che vuole e come meglio crede), ma soltanto che non debbano diventare l’oggetto delle politiche di promozione pubblica, intanto perché poco hanno a che spartire con la cultura (Euterpe, Calliope e la dea della pittura, se ci fosse, volgerebbero lo sguardo da un’altra parte) e poi perché davvero non si capisce come possano svolgere una funzione di “attrattori”.

Detto diversamente, occorre mettersi d’accordo: o con tali politiche si decide di “mettere il cappello” su qualsiasi cosa che venga programmata sul territorio (ma, allora, bisogna essere come minimo conseguenti e non appiccicare l’aggettivo culturale a ogni evento e a ogni manifestazione) oppure si decide di scegliere e selezionare le iniziative (ma, in questo caso, bisogna anche saper pronunciare di tanto in tanto qualche “no”, accettare l’eventualità di dover scontentare qualcuno). Peraltro, non è questione nemmeno di numeri, né il discorso sul patrimonio culturale può esaurirsi con poche considerazioni rapsodiche, perché quel discorso comporterebbe anche (e in primo luogo) un forte richiamo ai problemi della cura e dell’attenzione per la sua tutela (lo si accennava all’inizio), considerato che ciascuna generazione che si sussegue nel tempo non è la proprietaria dei beni comuni che riceve, ma soltanto la consegnataria e la custode (con tutti gli obblighi del caso) pro-tempore. Vasto programma, si potrebbe concludere, ma da qualche parte bisognerà pure, prima o poi, incominciare.

Tonino Ceravolo

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