Il Ministero della Giustizia, alla luce di alcune informative della Direzione investigativa antimafia e del Comando generale dell’Arma dei carabinieri, ha confermato il regime del carcere duro (41 bis dell’ordinamento penitenziario) per il boss delle Preserre vibonesi Bruno Emanuele, 49 anni, di Ariola di Gerocarne.

La decisione è stata assunta perché secondo il dicastero guidato da Marta Cartabia «non è venuta meno la capacità di Bruno Emanuele di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza, anche in ragione della sua concreta pericolosità». Gli avvocati Giuseppe Di Renzo e Vincenzo Galeota, difensori di Emanuele, hanno annunciato già che presenteranno ricorso contro la decisione al Tribunale di Sorveglianza di Roma. 

L'uomo è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per gli omicidi dei fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo di Gerocarne, commessi nel 2002, e per gli omicidi di Nicola Abbruzzese e Antonino Bevilacqua, commessi tra il 2003 e il 2004 a Cassano Ionio. Un’ulteriore condanna a 24 anni di carcere gli è stata inflitta, con le accuse di associazione mafiosa, narcotraffico, estorsione ed armi, nel processo scaturito dall’operazione antimafia “Luce nei boschi” sul cosiddetto “locale di Ariola” di cui il clan Emanuele avrebbe rappresentato l'ala militare.

Alcuni collaboratori di giustizia – in particolare il pentito del clan dei Piscopisani Raffaele Moscato – hanno raccontato dell’esistenza di un piano e di vari tentativi andati a vuoto per far evadere Bruno Emanuele dal carcere. Lo stesso Moscato ha aggiunto che Emanuele aveva garantito che una volta fuori dal carcere «avrebbe eliminato personalmente il boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”».