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Sguardi incrociati con i serrésiens e curiosità reciproche, osservazioni in cui, nello stesso tempo, si sperimenta la distanza dall’altro e il desiderio di conoscerlo, sono ciò che si riscontra quando si leggono le note di viaggio che il chirurgo ginevrino Horace Rilliet e l’abate francese Elie Perrin, ambedue di passaggio a Serra in due diversi momenti della seconda metà del XIX secolo, hanno consegnato alle stampe dopo il loro tour in Calabria. L’opera del primo – Colonne mobile en Calabre dans l'année 1852, (nella foto in alto il frontespizio) pubblicata a Ginevra, con ogni probabilità nel successivo 1853, presso la stamperia Pilet & Cougnard e recentemente riapparsa in traduzione italiana presso Rubbettino – è certamente uno dei più celebri libri di viaggio sull’estremo lembo dell’Italia meridionale, oggetto del desiderio per bibliologi, bibliofili e bibliomani reso famoso anche per merito di un articolo di Benedetto Croce apparso sulla “Critica” nel 1939. Si tratta di un singolare prodotto tipografico, dal formato di un piccolo album di 174 pagine quasi tutte corredate con gustosi disegni di mano dello stesso Rilliet e stampate con tecnica litografica che riproduce perfettamente il manoscritto originale e che si ispirano ai voyages che un altro svizzero, Rodolphe Töpffer (1799 – 1846), aveva compiuto a zigzag nei primi decenni del XIX secolo tra i cantoni elvetici, le Alpi italiane, le montagne della Grande-Chartreuse, la Costa Azzurra. Più modesta e quasi dimessa l’opera del secondo – Mon journal de voyage en Calabre (2-15 décembre 1887) – una ventina di pagine in tutto (sinora mai tradotte in italiano) stampate nel 1897 a Besançon presso la stamperia di H. Bossanne, alle quali lo stesso Perrin, da quello che scrive, sembra attribuire scarsa importanza, tanto che le dice originariamente non destinate alla pubblicazione.
H. Rilliet, Colonne mobile en Calabre, 1853, copertina
Eppure, nel primo come nel secondo libro, siamo in presenza di due documenti di grande interesse nei quali sembra talvolta di scoprire quasi due “antropologi per caso”, osservatori esterni rispetto alla realtà in cui si trovano che scrutano con occhio “etnografico” (anche se non intenzionalmente etnografico) un mondo sconosciuto e ne esplorano, oltre alla storia, anche taluni usi e abitudini, qualche volta riconoscendone compiaciuti la similarità con quelli del proprio luogo di provenienza, ma, in altre occasioni, dichiarando la propria sbigottita estraneità nei confronti di quegli inassimilabili costumi (e tralasciamo, qui, qualsiasi riflessione riguardo alla circostanza che tanto l’uno quanto l’altro atteggiamento comportano, di fatto, una negazione della specifica identità delle persone e dei luoghi osservati). Non seguiremo Perrin e Rilliet – il cui soggiorno a Serra occupa circa una trentina di pagine della traduzione edita da Rubbettino – in ogni fase della loro visita, ma ci limiteremo (brevemente) a un unico aspetto, i riti di socialità che i due autori sperimentano a tavola, tra cibi, discorsi e mutue attenzioni con i padroni di casa, che, nel caso di Rilliet, è quella del medico “Don” Francesco Sadurny, domenica 17 ottobre 1852: «L’interno delle case è infinitamente più confortevole e più pulito degli altri luoghi della Calabria che abbiamo visitato. Dal mio padrone di casa le scale e i pavimenti sono in legno e, entrando per la prima volta, abituato com’ero alle pietre e ai mattoni con cui sono pavimentate le case italiane, fui molto stupito di sentire risuonare i miei passi. Credetti per un istante di essere stato trasportato in una di quelle abitazioni in legno dell’Oberland, dove camminando nel modo più piano possibile si fa un tale rumore che si sente in tutto il resto della casa. Mi servirono un pranzo succulento, durante il quale feci la conoscenza della famiglia. Il padre è medico, il figlio farmacista; mi presentarono inoltre la monaca che è la zitella di casa; in qualità di monaca di casa essa compie i suoi voti in famiglia mentre sua sorella minore, Donna Michelina, bellissima persona, si occupa della parte della mondanità del nucleo familiare; e lo fa con molta grazia. Al dessert mi portarono un immenso vassoio di fichi d’india o fichi di cactus. Si tratta di un cibo molto gradevole e rinfrescante, ma che occorre aprire con una certa attenzione, se non ci si vuole riempire le dita delle innumerevoli piccole spine che ricoprono la buccia. Il numero delle domande che mi furono rivolte, per farsi un’opinione su di me, è favoloso. Ciò succedeva, del resto, in tutti i luoghi dove alloggiavamo dai privati. Il calabrese, diffidente per natura, vuole assolutamente sapere chi è lo straniero con cui ha da fare e lo interroga con una curiosità e un’insistenza che sfiorano spesso l’indiscrezione. Una semplice risposta non sembra accontentarlo; ritorna alla carica e in un modo indiretto rifà la stessa domanda, confrontando poi le due risposte. Sono tuttavia molto ospitali e si mettono completamente a disposizione dei loro ospiti che non lasciano più, neanche con lo sguardo».
H. Rilliet, In casa del dottor Sadurny a Serra
Ospitalità, curiosità, diffidenza, sono tutti caratteri e qualità psicologiche che altri viaggiatori avevano osservato nei calabresi. Il calabrese (e i componenti di una famiglia borghese di Serra a metà Ottocento non fanno eccezione) appare, allo sguardo esterno, sospettoso, guardingo, indiscreto, uno che vuole sapere e che non cessa di fare domande: lontano dalla riservatezza delle popolazioni del Nord Europa, poco uso alla sobrietà delle parole, indiscreto nel chiedere e nell’indagare. Questa curiosità indagante si ritrova anche nelle annotazioni dell’abate Perrin, in visita alla famiglia Tedeschi, che introduce osservando come “Don” Cesare Tedeschi, amico dei certosini, si facesse vanto di essere stato incarcerato al tempo dell’invasione dei garibaldini, in quanto clericale e “realista”: «[...] La famiglia Tedeschi si riunisce attorno a noi e tutti si avvicinano a turno a baciarci devotamente la mano. È una famiglia patriarcale. Vi sono zii, prozii, zie, prozie, fratelli, sorelle, nipoti. Non si sa dove la dinastia cominci, né dove finisca. Don Cesare ha due figli, uno di dieci anni, che porta l’abito ecclesiastico, l’altro di otto anni, vestito come un certosino; e due figlie, delle quali il padre si ripromette di fare due monache o religiose» (traduzione mia). Gli amici della famiglia Tedeschi arrivano per rendere omaggio ai forestieri (il sindaco, addirittura, si presenta in redingote) e riempiono le camere del palazzo, mentre, sulla porta, si affollano i curiosi per esaminare gli ospiti quando escono. Ma è dopo la visita alla chiesa Matrice, ancora una volta a tavola, in casa di Don Ferdinando, un sacerdote grande e buono, dal volto sereno e affabile, che emerge il confronto tra le due culture: «Don Ferdinando ha convocato tutta la combriccola dei suoi parenti e amici, la tavola è completa, il menu, preparato alla calabrese, è abbondante e vario. Ma il servizio non ci ricorda affatto le abitudini francesi. Si versa a ciascuno il vino in un piccolo bicchiere. Per l’acqua c’è un bicchierone che serve per tutti, che viene passato uno dopo l’altro e dal quale ciascuno prende un sorso. Succede persino che, in segno d’amicizia, il vicino beve dal vostro bicchiere di vino e vi invita a bere dal suo; è strano, troppo strano. Per il resto, si è brilli e tutti parlano contemporaneamente» (traduzione mia).
H. Rilliet, Pranzo in casa Sadurny
Come si vede, due modi diversi dello stare a tavola, due diverse concezioni delle buone maniere conviviali, in cui è evidente la riprovazione per uno stile fondato sulla condivisione da parte di chi avrebbe desiderato un comportamento ispirato a una maggiore “formalità”. E ancora una volta, come già in Rilliet, le troppe parole, il darsi la voce uno sull’altro nel medesimo momento, una mancanza di autocontrollo nelle manifestazioni verbali che, c’è da ritenere, pure se Perrin esplicitamente non lo dice, era anch’essa il segno di quel carattere passionale e poco governato dalla ragione, istintivo e impetuoso, che i tanti viaggiatori giunti in Calabria non mancavano di osservare nelle loro annotazioni.
H. Rilliet, Piazza San Giovanni a Serra il 17 ottobre 1852
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