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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Abbiamo pazientato per giorni, aspettando che anche altri potessero tentare di costruirsi un pulpito di inchiostro sul quale ergersi a vincitori assoluti dell’ultima tornata elettorale. Ma niente, ogni attesa si è dimostrata vana. Nessuno nel Vibonese pensa di aver dominato le ultime amministrative più di quanto abbia saputo fare il Partito democratico e il deputato Bruno Censore.
A sei giorni di distanza dal voto che ha interessato 14 comuni della provincia non si sono registrati ulteriori auto incensamenti. A futura memoria resteranno dunque i soli tentativi (in molti casi riusciti) di veicolare attraverso la stampa il messaggio che sì, la missione è compiuta, il Pd vibonese ha trionfato quasi ovunque alle comunali.
A «Spadola, Fabrizia, Arena, San Costantino, Filogaso e Francavilla Angitola», sarebbero ben sei i comuni in cui sarebbe «risultata determinante» l’influenza diretta o indiretta della «strategia politica» e del «savoir faire» del deputato del Partito democratico, capace di far eleggere altrettanti "suoi" sindaci. Peccato però che in queste competizioni elettorali, e né tantomeno in quelle degli altri comuni chiamati al voto, nessuna delle liste in lizza si sia presentata agli elettori con il contrassegno ufficiale del Partito democratico. Anzi, sono stati tutti i partiti a giocare a nascondino, pronti a celarsi dietro il volto fresco e presentabile delle liste civiche: solo a Pizzo Calabro si è registrata la presenza, comunque incapace di riscuotere particolare entusiasmo, di una lista con il contrassegno dei 5 Stelle.
Insomma, i loghi e i simboli dei partiti tradizioni e della politica nazionale, attuali e meno attuali, sono stati banditi. Niente tricolori che scimmiottano l’emblema di Forza Italia né nostalgici scudi crociati, querce, garofani e margherite, solo qualche timido ramoscello d’ulivo. È questa la dimostrazione più palese di come, al di là dei trionfalismi del giorno dopo, nel Vibonese non abbia vinto alcun partito, né tanto meno quello di Bruno Censore. Perché il voto dei comuni, in particolare quello dei piccoli paesi, non risponde alle istruzioni ingessate delle cordate di partito. Il voto nei piccoli comuni è fatto di carne e ossa, di garanzie, speranze occupazionali, simpatie e antipatie, gratitudini e irriconoscenze. È fatto di famiglie che si compattano o si slegano, di opportunità e relazioni della porta accanto.
Un quadro in cui il partitismo e gli organi direttivi neanche lontanamente possono giocare un ruolo attivo, perché più ci si avvicina ai bisogni reali della gente e del territorio e più si fa netta la consapevolezza che i partiti siano soggetti costituiti per lucrare potere e poltrone, e non per risolvere i problemi di una comunità. E la cosa bella è che i partiti stessi ne sono pienamente consapevoli. Lo sono però solo fino a quando le urne si svuotano, da lì in poi, appena si conclude la conta dei voti, escono allo scoperto, o almeno tentano di farlo. Solo dopo si è capaci di parlare di «vittorie di partito», mentre di contro per tutto il corso della campagna elettorale – così come è stato anche per questa campagna elettorale – gli aspiranti amministratori ai cittadini devono raccontare che «sono anni ormai che non ho in tasca una tessera di partito» se vogliono mietere consenso.
In quanti e in quali dei 14 comuni chiamati alle urne, i candidati hanno rivelato in pubblico, prima del voto, di sentirsi “renziani”, “berlusconiani”, “salviniani” e chi più ne ha più ne metta? In nessuno, perché farlo avrebbe voluto dire segnarsi un eclatante e beffardo autogol, screditarsi da soli agli occhi degli elettori. È per questo le elezioni di domenica scorsa hanno fatto registrare anche nel Vibonese, più di ogni altra tornata, il boom delle liste civiche: perché i partiti sono impresentabili. Cosa accaduta perfino a Pizzo, dove la fascia di sindaco ha trovata ancora spazio sul petto di Gianluca Callipo, eletto però anche lui senza simboli di partito. Proprio Callipo che non più di tre anni fa si giocava la candidatura a governatore della Regione Calabria da giovane promessa del Partito democratico, vigorosamente appoggiato da Matteo Renzi in persona. Bisognerebbe indagare a fondo, inoltre, per capire quanto ad esempio il Piromalli di turno (il neo sindaco di Spadola, geograficamente vicinissima a Serra San Bruno) si senta – così come molte testate giornalistiche lo hanno dipinto – primo cittadino in orbita Pd, “soldato” di Renzi e del renzismo, e quanto soprattutto i nuovi consiglieri eletti sentano comodi addosso i panni dei peones censoriani.
La verità è che chi è andato alle urne, nella larga maggioranza dei casi, quando è stato in procinto di apporre la propria preferenza nel segreto della cabina elettorale, non ha neanche lontanamente pensato di esprimere consenso e fiducia ai partiti, a nessuno dei partiti, né di centrosinistra, né di centrodestra. E gli elettori, nel leggere considerazioni e inni alla gloria da parte di uomini di partito che il giorno dopo si sono appropriati di quei consensi, avranno sicuramente avvertito una pesante nausea. Ed è questo forse il dato politico più importante.
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