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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Tra il ’97 e il ’98, anni in cui furono istituite le figure di Lsu e Lpu, in Calabria nacque un bacino di oltre 10mila lavoratori, destinati a svolgere servizi utili alla collettività in Province, Comuni, Comunità montane, Aziende sanitarie, Aziende municipalizzate e Cooperative sociali. Si trattava di misure mirate a creare occupazione, per dare sollievo a tutti quei soggetti che si trovavano in una posizione di svantaggio nel mercato del lavoro. Dovevano essere figure temporanee, con contratti della durata di 12 mesi, prorogabili al massimo per altri due semestri. Oggi purtroppo sappiamo com’è andata a finire: Lsu e Lpu hanno finito per rappresentare il paradigma del precariato di Stato, del lavoro nero legalizzato.
Di quei diecimila lavoratori, oggi in Calabria ne sono rimasti circa la metà. Cinquemila di loro, negli anni, sono fuoriusciti o sono stati stabilizzati. Alcuni provvedimenti regionali hanno favorito la stabilizzazione prima nei comuni superiori ai 15mila abitanti, poi in quelli inferiori a 5mila. Già negli effetti pratici di queste due circostanze è ravvisabile la disparità di base su cui lo governo centrale ed enti locali hanno impostato la figura di questi lavoratori. E’ evidente, infatti, come ad alcuni di loro siano state date opportunità di stabilizzazione che invece sono state negate ad altri. Per legge.
I lavoratori socialmente utili, per diventare tali, dovevano essere disoccupati, lavoratori in mobilità oppure in cassa integrazione. Discorso diverso per i lavoratori di pubblica utilità, che esistono però solo in Calabria, anomalia nell’anomalia. Per loro i requisiti erano mirati a favorire l’ingresso di giovani tra i 21 e i 31 anni in cerca di prima occupazione. Lsu e Lpu hanno poi seguito percorsi paralleli, fino a condividere un unico destino di incertezza e di instabilità lavorativa. Di proroga in proroga sono trascorsi 15 anni. Con tutti gli assessori al Lavoro delle varie giunte regionali che si sono avvicendate alla guida della Calabria, la musica è sempre stata la stessa: ritardi nei pagamenti, disagi, proteste, manifestazioni, blocchi stradali. Per arrivare ad un epilogo sempre uguale: la proroga che arriva, nei giorni di Natale, come un dono degno di gratitudine, e un altro anno a soffrire e sperare.
Lo stato di instabilità permanente in cui sono stati ingabbiati questi lavoratori ha però un ulteriore risvolto poco edificante, in Calabria ma probabilmente anche altrove. Il precario diventa più facilmente di altri carne da campagna elettorale, i suoi (pochi) diritti vengono contrabbandati come favori, la sua condizione di dipendenza dal potere politico, per rimanere ancorato alla speranza di un futuro lavorativo, viene usata dallo stesso potere come arma di conquista del consenso, come legaccio per tenere il lavoratore stretto al cappio della clientela. Di contro, troppo spesso, negli enti locali in cui prestano servizio i precari sono costretti a subire disparità di trattamento nell’assegnazione e nella gestione delle mansioni a cui sono addetti. Se non addirittura vere e proprie ritorsioni di natura politica.
Le conseguenze sociali di questa situazione sono purtroppo sotto gli occhi di tutti. L’esasperazione tra i lavoratori cresce sempre di più: mentre cercano ripetutamente di strappare qualche mese di lavoro, sono costretti ad assistere agli scandali dei privilegi di cui gode la politica, e in più vedono aumentare le assunzioni e le consulenze in enti e aziende che pure, come ad esempio l’Afor, sono in liquidazione ormai da anni. In tutto questo non va dimenticato che il loro apporto al funzionamento degli enti pubblici è diventato negli anni determinante: le funzioni che Lsu e Lpu svolgono sarebbero difficilmente espletate solo con il personale dipendente degli enti. Lavorano 20 ore a settimana, più la possibilità di altre 10 di integrazione – una sorta di straordinario, fuori contratto – anche se quasi sempre devono fare i conti con pesanti ritardi nei pagamenti.
Ma non è certo solo per questi ritardi che, ciclicamente, scendono in piazza a reclamare i propri diritti. L’ultima manifestazione, organizzata dall’Usb, l’8 maggio scorso nel capoluogo di regione, ha portato un migliaio di lavoratori a chiedere una volta di più risposte certe sul futuro. Alla quotidiana precarietà cui loro malgrado si sono dovuti adattare, tra l’altro, si è aggiunta qualche mese fa una sentenza della Corte Costituzionale (n. 18/2013) che ha dichiarato illegittimo l’art.55, comma 1, della legge regionale 47/2011 che rinviava il termine per la stabilizzazione al dicembre 2014. Questa sentenza ha sostanzialmente fatto venire meno il presupposto giuridico per cui gli enti “utilizzatori” tenevano in servizio Lsu e Lpu, bloccando di fatto anche i pagamenti delle spettanze arretrate. Dopo di ciò il Consiglio regionale ha approvato una norma transitoria che ha consentito la copertura finanziaria per il pagamento degli stipendi fino a luglio, “soluzione” che ovviamente non ha tranquillizzato affatto i lavoratori che continuano ad essere in agitazione. Dopo la manifestazione dell’8 maggio il neoassessore al Lavoro, Nazzareno Salerno, ha fornito rassicurazioni circa sulla possibilità di trovare, in assestamento di bilancio, i fondi per garantire gli stipendi fino a dicembre 2013. Ora l’impegno, arrivato da più parti, è quello della costituzione di “un tavolo tecnico” a livello governativo per arrivare alla tanto agognata stabilizzazione.
La volontà politica, almeno quella espressa a parole, d’altronde è sempre stata quella di “salvaguardare i livelli occupazionali”, ma nei fatti la stabilizzazione oggi appare molto più improbabile che in passato. E la mancanza di risorse a loro destinate – servono più di 17 milioni di euro per arrivare a dicembre – pesa sul futuro di questi lavoratori molto di più delle censure della Corte costituzionale.
Sergio Pelaia
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Vado a trovare Giovanni (i nomi sono di fantasia) in casa sua, una piccola casa del centro storico di Serra San Bruno, “portata in dote” dalla sua compagna, Raffaella, “che meno male che abbiamo una casa di proprietà, anche se minuscola, ma almeno non ci manda via nessuno!” La loro è una casa piccola ma accogliente, di quelle che sanno “di casa” e appena entrato, subito la piccola macchinetta del caffè arriva sui fornelli. Giovanni è un lavoratore LPU del Comune di Serra San Bruno addetto al servizio manutentivo. E’ sposato e ha due figli. La sua compagna fa saltuariamente dei piccoli lavori domestici per arrotondare il salario di Giovanni, perché “le spese sono tante e lo stipendio di Gianni, se di stipendio si può parlare, non arriva sempre puntuale. Adesso per esempio ha in arretrato sei mesi più tre mesi di integrazione, intanto le spese si accumulano e le scadenze di fine mese, invece, sono sempre puntuali”.
Lei è un LPU da più di quindici anni. Ci può brevemente raccontare come ha vissuto e come sta vivendo questa sua esperienza lavorativa, che ha segnato e sta segnando la sua vita?
“Io sono entrato in questo progetto a ventidue anni, pensando che fosse una fase transitoria per poi avere condizioni di lavoro migliore, ma sa, ho fatto le scuole superiori conseguendo un diploma in ragioneria, e le opportunità di lavoro già in quegli anni nelle Serre andavano scemando, allora quel 'sussidio' mi parve una opportunità, un periodo per lavorare qualche tempo, mai avrei pensato di impantanarmi in una situazione lavorativa che ha congelato le nostre vite”.
Immagino che le difficoltà per tirare avanti la famiglia siano molteplici, specie alla luce di quanto prima mi accennava Raffaella.
“La ‘fortuna’ dei piccoli paesi è che ancora c’è una sorta di solidarietà tra familiari, tra amici, e che ancora resistono quei piccoli negozietti che ti fanno un minimo di credito per fare la spesa. A volte si va a credito anche in farmacia, e spesso i nostri genitori, nonostante anche le loro pensioni siano ridotte al lumicino, ogni tanto un piccolo aiuto ce lo danno. Questo comporta il vivere una vita sospesa. Senza certezze, senza la benché minima possibilità di programmare un futuro, e quello che mi preoccupa di più è la consapevolezza di non poter mantenere i figli agli studi. Siamo ritornati negli anni venti, quando solo i medici e gli avvocati potevano mandare i figli a scuola, eppure sono ragazzi intelligenti i nostri. Ora sono piccoli e in qualche modo uno riesce a crescerli, a farli andare a scuola, ma quando sarà il momento di mandarli all’Università? Adesso vivo con il terrore che a Luglio non ci saranno più le risorse finanziarie per poterci pagare e io non saprei proprio come fare. Non ho proseguito negli studi e non ho imparato un mestiere artigiano, so fare, e bene, quello che ho fatto per sedici anni per il Comune, e se questi adesso mi lasciano per strada con chi me la prendo?”
Quali sono le vostre effettive condizioni di lavoro?
“Non siamo per niente tutelati. Non abbiamo nessuna copertura contributiva, in pratica siamo a tutti gli effetti lavoratori in nero, abbiamo una copertura INAIL per gli infortuni sul lavoro, ma anche su quella ci sarebbe tanto da dire, è capitato a colleghi di avere un incidente e a casa a fine mese non portavano neanche duecento euro. Praticamente abbiamo la condizione di servi della gleba e i doveri dei lavoratori europei. Se lo dicessero ad Hannover, ai tedeschi, come veniamo trattati, certamente non ci crederebbero. Altro che Europa”.
Qual è stato negli anni l’atteggiamento dell’Amministrazione Pubblica nei vostri confronti?
“Non siamo mai stati tutelati dalle varie amministrazioni che si sono succedute, amministrazioni che ci hanno sempre usato come bacino di voti, fregandosene alcune volte dei diritti minimi che ha un lavoratore. Faccio un esempio: a Serra chi lavora nel settore della manutenzione, non ha nemmeno l’equipaggiamento minimo previsto dalla legge 626 sulla sicurezza. In pratica la tutela del lavoratore nel bacino LSU-LPU è sempre stata una chimera. Molte delle lotte che abbiamo portato avanti in questi anni, hanno avuto come piattaforma proprio dei punti che mettevano in evidenza queste grosse contraddizioni”.
Non vorrei cadere nella retorica, ma c’è una domanda che forse è necessaria per comprendere concretamente la situazione sua e dei suoi colleghi. Come vede il suo futuro?
“Guardi, preferisco non pensarci. Mi hanno abituato, anno per anno, scadenza per scadenza, a vivere la vita giorno per giorno. Vorrei solo una cosa, la possibilità di far crescere dignitosamente i miei figli, e se questa opportunità ci verrà negata, se ci verrà negato il diritto alla vita, come veramente si sta già facendo, noi saremo disperati, e la disperazione non sai mai cosa ti fa fare”.
Sergio Gambino
(servizio pubblicato su Il Corriere della Calabria n. 101)
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