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Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
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Sono passati 10 anni dalla tragedia che colpì gli operai dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino e che costò la vita a sette persone, tra le quali il 26enne Giuseppe Demasi, originario di Fabrizia.
Nella notte compresa tra il 5 e 6 dicembre 2007, poco dopo l’una, un rogo divampò all’interno di uno stabile di proprietà dell’azienda tedesca, la più importante d’Europa nel settore siderurgico. Sulla linea 5 dell’acciaieria sette operai furono investiti da un incendio causato dalla fuoriuscita di olio bollente. I colleghi al lavoro in quel comparto furono i primi a dare l’allarme. Dopo pochi minuti sul posto si precipitarono le ambulanze del 118 e i feriti vennero trasportati d’urgenza in ospedale. Alle 4 del mattino, solo tre ore dopo, la morte del primo operaio. Nei giorni la stessa sorte toccò alle altre sei persone ferite in maniera gravissima. Giuseppe Demasi fu l’ultimo a morire, il 30 dicembre 2007, dopo i reiterati e vani tentativi di mantenerlo in vita.
Dopo il rogo, molti lavoratori denunciarono una situazione da tempo fuori controllo. Nei giorni precedenti all’incidente la fabbrica si trovò a corto di personale perché alcuni operai erano stati licenziati mentre altri erano già stati trasferiti allo stabilimento di Terni. Quelli rimasti raccontarono di essere costretti a turni pesantissimi e agli straordinari per mantenere attiva la produzione: alcuni degli operai coinvolti nell’incidente lavoravano ininterrottamente da 12 ore, 4 delle quali di straordinario. I colleghi accorsi sul luogo dell’incidente nella fase dei soccorsi – così come messo agli atti nel processo che ne seguì – raccontarono di estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato. Nel corso delle indagini, inoltre, la Procura scoprì che nei mesi precedenti all’incendio si erano verificati diversi piccoli incendi, domati direttamente dagli operai senza mai avvertire il 115 e con la linea di produzione ancora in movimento. L’azienda infatti sconsigliava apertamente al personale di innescare il meccanismo di arresto della linea di lavorazione: in quel caso l’acciaio sui nastri si sarebbe bloccato nel forno per la ricottura o nelle vasche di acido, diventando inutilizzabile. La notte dell’incidente nessuno bloccò la linea, così come da prescrizione, elemento questo rilevante per la Procura di Torino, che fece intuire anche quale fosse il clima che si respirava in fabbrica: a febbraio del 2008, due mesi dopo l’incidente, la linea 5 avrebbe infatti dovuto chiudere tanto che le misure di prevenzione e sicurezza erano state abbandonate da tempo.
La ThyssenKrupp negò subito qualsiasi responsabilità e inizialmente accusò gli operai morti di avere provocato l’incidente con distrazioni o omissioni. I dirigenti, in un secondo momento, parlarono invece di «errori dovuti a circostanze sfavorevoli». Durante le indagini la Guardia di Finanza sequestrò all’amministratore delegato Espenhahn un documento riservato in cui si ipotizzava di avviare azioni legali contro Antonio Boccuzzi, unico superstite e oggi deputato Pd, ritenuto colpevole di raccontare alla stampa i ricordi della tragedia e le condizioni di lavoro imposte nello stabilimento.
Le indagini si chiusero in meno di un anno, il 17 ottobre 2008, con richiesta di rinvio a giudizio emessa dalla Procura di Torino per sei dirigenti dell’azienda. Dopo le varie fasi processuali, nel maggio 2016, la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva le condanne emesse durante il secondo appello nei confronti dei sei imputati. All'amministratore delegato del gruppo, Harald Espenhahn, è stata inflitta la pena più elevata: 9 anni e 8 mesi. Pene inferiori per gli altri dirigenti, 7 anni e 6 mesi a Daniele Moroni, 7 anni e 2 mesi a Raffaele Salerno, 6 anni e 8 mesi a Cosimo Cafueri, 6 anni e 3 mesi ciascuno a Marco Pucci e Gerald Priegnitz. Al momento, però, solo i condannati italiani sono andati in carcere. I tedeschi Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz vivono invece liberi in Germania.
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