Io credo di aver cominciato a capire il 9 dicembre 2009. Erano le 11 del mattino, a Serra faceva freddo. Andai in commissariato, ci sarebbe stata una conferenza stampa. Arrivai in anticipo: sapevo perché avevano convocato i giornalisti. Anzi credevo di saperlo. Lo scoprii davvero solo quando mi intrufolai nel retro dell’edificio. Sotto un portico c’era un cassonetto dei rifiuti. Mi sporsi per vedere cosa ci fosse dentro, la mia curiosità sparì subito. Vidi, a pochi centimetri dal mio naso, un teschio umano, appoggiato sopra le buste di spazzatura. Aveva un buco in fronte, un colpo di pistola, ed era pieno di macchie di sangue. Era lucido, senza più un brandello di carne. Capii subito. Pasquale Andreacchi, 18 anni, era scomparso due mesi prima, ora qualcuno lo stava restituendo alla sua famiglia in quel modo. Disumano. Non so descrivere cosa provai, so che leggere queste righe farà male, ma so anche che in quel momento per la prima volta capii dove ero nato, dove mi trovavo. Rivivo quella mattina ogni volta che scrivo di Pasquale. E non riesco a fermarmi, devo scrivere. Capii che raccontare quella storia sarebbe stato l’unico modo per non consegnare all’oblio l’adolescenza spezzata di un ragazzo innocente. Raccontare, senza cerimonie, senza retorica. Solo per far capire, per scuotere la coscienza addormentata di chi ancora non si sente coinvolto.