Domenica, 01 Marzo 2015 15:22

‘Lo nero periglio che vien dalo mare’. Le invasioni arabe nella storia della Calabria

Scritto da Salvatore Costa
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Mai come in questo momento è utile guardarsi indietro e rileggere la storia della Calabria. La marginalizzazione di questa regione sembra non avere più senso in un momento in cui il Mediterraneo torna ad essere il centro di processi storici che ci interesseranno da vicino per molti anni.

Il trambusto mediatico riguardo alle odierne vicende arabe lascia col fiato sospeso. La violenza apparentemente gratuita dell’Is fa pensare a una barbarie che in Occidente era relegata al ricordo del nazifascismo. Il califfato odierno sgozza, brucia, impone leggi medioevali, esercita il potere con violenza aberrante e subdola.

Purtroppo tutto questo per il popolo calabrese non rappresenta una novità: riguardando agli avvenimenti passati è facile rendersi conto di come questa per noi sia una guerra antica. Una delle pagine più tristi della storia calabrese è rappresentata proprio dalle invasioni dei Saraceni, che hanno imperversato sul territorio della regione per circa un secolo, intorno all’anno 1000, nel periodo in cui la Calabria era uno degli ultimi lembi di terra dell’impero Bizantino.

In quel periodo le popolazioni calabre vivevano ancora in città costruite sulle coste, senza difese e fortificazioni, secondo lo stile di vita ereditato dai coloni greci, esposte quindi alle pretese di qualsiasi invasore. La corte bizantina della quale la regione dipendeva non diede mai risposte concrete, anzi la sua posizione ambigua ha avuto spesso conseguenze drammatiche per il popolo calabrese. Gli assalti divennero più frequenti quando i Saraceni si assestarono nella vicina Sicilia, facile approdo per arrivare alle coste calabresi. Ma se la dominazione araba in Sicilia fu improntata allo sviluppo e al riordinamento (i grandi latifondi romani e bizantini furono frazionati in medie e piccole proprietà, furono introdotte nuove colture e nuove tecniche, si limitò il potere burocratico tipico dei bizantini e il centralismo tipico di Roma), quella della Calabria fu invece improntata al puro sfruttamento: qui i saraceni utilizzavano le roccaforti come base per le navi e razziavano il territorio circostante, trattando i contadini e gli abitanti del posto come schiavi più che come sudditi.

Le incursioni seguirono sempre una logica militare, inquadrate in un contesto di guerra di religione: il loro obbiettivo finale era lo sterminio dei Cristiani, da loro considerati “infedeli”. E come tali venivano trattati: i cittadini catturati durante quelle scorrerie venivano incarcerati, e molti di loro anche venduti come schiavi. Gli assalti cominciarono a farsi assidui, e molti paesi diventarono capisaldi del califfato siciliano. Gli esempi più importanti furono le fortezze di Amantea, Tropea, Santa Caterina sullo Jonio: avamposti che permettevano facili e rapide scorrerie, oltre a un sicuro rifugio dopo aver depredato l’entroterra calabrese. In particolare Squillace – ma anche Amantea – divenne una roccaforte saracena autonoma, indipendente dal califfato siciliano, meta di tanti “mori” che non si riconoscevano nell’autorità siciliana, tanto da spingere il loro capo, Abstaele, a intensificare gli attacchi ed estendere il raggio d’azione. Per appagare un così numeroso numero di soldati si intensificarono gli eccidi, le stragi, gli incendi e le crudeltà di ogni genere. Squllace divenne una “piazza” molto frequentata, dove si praticava un fiorente mercato degli schiavi e la vendita dei bottini depredati nelle varie scorrerie.

La corte bizantina corse ai ripari con l’invio in Calabria del grande generale Niceforo Foca, che portò con sè una schiera d’armati che effettivamente contrastarono i saraceni e li scacciarono da molte città. Ma poi non riuscirono a tenere i presidi, perché molte erano le città da liberare. Foca fece costruire fortezze e torri che poi furono riprese e rafforzate dai Normanni.

Nicola Gerardo Marchese in “Calabria dimenticata” (Stagrame, 1982) riporta un passo attribuito all’«agiografo di San Nilo da Rossano», recatosi in quel periodo sul monte Mercurio nei pressi di Seminara: «Era già un anno (tra l’estate del 950 a quella del 951) che gli empi saraceni con le loro scorrerie devastavano tutta la Calabria, e corse la notizia che si avvicinavano ad assalire le regioni Mercuriali, né pareva che volessero usare riguardo a monasteri, né alcuna pietà verso i monaci. Avvicinandosi a distruggere quei luoghi che il Santo Nilo soggiornava si descrive il panico e l’angoscia che si diffondeva intorno».

Le invasioni saracene non lasciarono in Calabria tracce visibili del loro passaggio, ma nella cultura e nel ricordo rimasero presenti per molti anni. Riporta ancora Marchese: «Capo Vaticano, un lembo posto nel punto più esposto della Calabria Meridionale conserva ancora nel nome il ricordo di queste continue e crudeli incursioni provenienti dal mare. Per questo il nome originario di questa spiaggia calabra era “batti cani” proprio per rammentare che era un posto continuamente battuto da quei cani rabbiosi, che erano i saraceni».

Dagli arabi vengono anche usi entrati nella quotidianità dei calabresi: a loro si deve la coltivazione degli alberi da frutto o la conservazione degli alimenti sottolio, ma anche un’evidente traccia linguistica nel dialetto della Calabria. Luigi de Rose, in “Le dominazioni in Calabria - Analisi storico linguistica”, indica a mo’ di esempio alcuni vocaboli arabi e i loro corrispondenti nel dialetto di Rose: chianca (arabo), macelleria (italiano), “chianga” (dialetto); sciorbet (arabo), rinfresco/gelato (italiano), scirubetta (dialetto); tammar (arabo), mercante di datteri (italiano), tamarro (dialetto). Molti in quella fase storica furono anche i calabresi rapiti e portati in terra d’Oriente. Il più famoso fu Giovan Dionigi Galeni, catturato da bambino a Le Castella, nel Crotonese, divenne corsaro e poi ammiraglio della flotta turca. Prese il nome di Uluc Alì e fu l’unico tra i capitani, assieme a Dragut, a sopravvivere alla celebre battaglia di Lepanto, l’ ultimo epico scontro tra Cristianità e Islam. Ma questa è un’altra storia

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