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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Una sentenza, quella arrivata oggi dalla Corte di Cassazione, che oltre a confermare le condanne a sfavore dei quattro imputati coinvolti nell’operazione antimafia “Domino”, ha anche di fatto certificato - per la prima volta in sede giudiziaria - l’esistenza della locale di Fabrizia, i cui esponenti sono individuabili nei referenti del clan ‘ndranghetistico Nesci-Montagnese.
L’operazione, scattata nel giugno 2007, aveva acceso i riflettori sulla locale costituita nel centro montano delle Serre vibonesi. Il verdetto ha, dunque, condannato a dodici anni di reclusione Bruno Nesci, 57 anni, e a nove anni il genero Antonio Montagnese, 35 anni, entrambi imputati del reato di associazione mafiosa. I due, residenti a Fabrizia, erano stati assolti in primo grado dal Tribunale di Vibo Valentia, ma in seguito, in appello il pm della Dda di Catanzaro, Giampaolo Boninsegna, era riuscito a convincere la Corte a ribaltare il verdetto, convalidato oggi anche dalla Suprema Corte.
La Cassazione, nell’ambito dello stesso filone processuale, ha confermato anche la condanna a dieci anni di reclusione ciascuno per Antonio Dessì e Domenico Audino, entrambi di Locri e ritenuti responsabili di un tentato omicidio proprio ai danni di Bruno Nesci, consumato nel 2004 a Fabrizia. Mandanti dell’esecuzione sarebbero stati i referenti del clan avversario dei Mamone.
Dessì ed Audino incassano quindi una nuova condanna dopo quella rimediata nel processo per l’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno avvenuto a Locri il 16 ottobre del 2005.
E’ iniziato questa mattina nell’aula bunker del Tribunale di Vibo Valentia il maxiprocesso a danno del clan Mancuso di Limbadi. Il troncone processuale si è originato dall’unione delle tre operazioni antimafia “Black money”, “Purgatorio” ed “Overseas” che, nel complesso, riguardano ben 24 imputati accusati, a vario titolo, dei reati di associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, usura, estorsioni, danneggiamenti, riciclaggio e detenzione di armi.
Si tratta di quello che, molti degli addetti ai lavori, hanno etichettato come uno dei più importanti processi dell’intera storia della 'ndrangheta Vibonese. Fra gli imputati i boss Antonio Mancuso, Pantaleone Mancuso, Agostino Papaianni, Giovanni Mancuso, Giuseppe Mancuso e gli imprenditori Antonio Prestia, Antonino Castagna e Nicola Castagna.
Attesa l’incompatibilità del giudice vibonese Lucia Monaco (che in veste di gip alcuni mesi fa aveva convalidato i fermi dell’operazione "Black money") a presiedere il Collegio è stata chiamata Maria Carla Sacco, gip del distretto di Catanzaro, già pm della Procura catanzarese. Il maxiprocesso riprenderà tra tre settimane, il prossimo 22 maggio, con le eccezioni preliminari dei difensori degli imputati.
TORINO - Si riapre la vicenda giudiziaria sull’incendio dello stabilimento ThyssenKrupp, l'acciaieria di Torino in cui, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, divampò un tragico rogo che provocò sette vittime - tutti operai - tra cui il giovane Giuseppe Demasi, all’epoca 26enne, i cui genitori sono originari di Fabrizia.
Nella serata di ieri le sezioni unite penali della Cassazione, inaspettatamente, hanno annullato con rinvio le condanne a danno dei manager imputati per il rogo della ThyssenKrupp, multinazionale tedesca leader nel settore dell'acciaio. Quindi, contrariamente alle sentenze precedenti, i giudici supremi hanno confermato la responsabilità degli imputati per omicidio colposo ma allo stesso tempo hanno annullato una parte della sentenza di appello che riguarda una circostanza aggravante, riferita – secondo la difesa - alle omesse misure di sicurezza. Ci sarà bisogno quindi di un nuovo processo d’appello per rideterminare le pene.
Il verdetto ha scatenato la rabbia dei familiari delle vittime, tanto che proprio in seguito alla pronuncia della sentenza, fuori dall’aula, si sono levate le urla di dissenso da parte di molti dei presenti. «Avete scelto di non decidere in modo che questi vigliacchi non vadano in carcere», hanno gridato alcuni parenti degli operai che persero la vita nel tragico incidente di sei anni e mezzo fa.
Si attendono quindi le motivazioni della decisione, soprattutto perché il procuratore generale Carlo Destro aveva chiesto la conferma delle pene inflitte in appello per omicidio colposo: 10 anni di reclusione per l’ex amministratore delegato, Harald Espenhahn, e dai 9 ai 7 anni per i dirigenti Gerald Priegnitz e Marco Pucci, il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno, il responsabile dell’area tecnica Daniele Moroni e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Pene che erano comunque state ridotte rispetto alla sentenza di primo grado del 15 aprile 2011, in cui Espenhahn - con una decisione definita all’epoca «un verdetto senza precedenti per i casi di morte sul lavoro» - era stato condannato per omicidio volontario con dolo eventuale. Ora, però, le pene per gli imputati dovranno essere rideterminate.
È partito ieri mattina dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia il processo sui drammatici fatti dell’alluvione del 3 luglio 2006 che mise letteralmente in ginocchio tutto il territorio provinciale e, in particolare, le zone tirreniche del Vibonese. All’epoca dei fatti a pagarne maggiormente le spese furono le frazioni marine del comune capoluogo, dove si registrarono tre vittime e novanta feriti, oltreché danni per 200milioni di euro. A 17 mesi dalla prima udienza subito rinviata, a 21 mesi dal rinvio a giudizio, a 3 anni e otto mesi dalla conclusione delle indagini ed a 4 anni e 5 mesi dagli avvisi di garanzia, il processo atto a far luce sulle responsabilità di quanto accaduto in quei tragici giorni è quindi finalmente ripreso. La fase di stallo - determinata da una serie di problematiche, fra cui, errori di notifica, cambi di collegio e la mancanza cronica di giudici nel Tribunale Vibonese – aveva inevitabilmente fatto dilatare i tempi del processo.
Sono quindici gli imputati che erano stati rinviati a giudizio il 18 giugno 2012, chiamati a rispondere, a vario titolo, per le accuse di disastro colposo, inondazione colposa, omicidio colposo ed omissione di atti d’ufficio. Fra questi vi sono Gaetano Ottavio Bruni, all’epoca dei fatti presidente della Provincia di Vibo ed attuale consigliere regionale in quota Udc; Paolo Barbieri, ex assessore provinciale oggi elemento di spicco del Pd vibonese; Domenico Corigliano, ex comandante della Polizia Municipale di Vibo; Ugo Bellantoni, Silvana De Carolis e Giacomo Consoli, tutti ex dirigenti del Comune di Vibo oltreché diversi dirigenti della Regione e del Nucleo Industriale. Fra le parti civili in causa vi sono le famigli delle vittime, 17 privati cittadini, il Wwf e Legambiente.
Il Tribunale collegiale presieduto dal giudice Filippo Ricci è riuscito, quindi, ieri mattina ad avviare il dibattimento ed a programmare per le prossime udienze le escussioni in aula del colonnello Michele di Nunno e del maresciallo Marcello Amico, appartenenti entrambi della Guardia di Finanza e testi dell’accusa. Il processo proseguirà il 10 aprile prossimo.
Il Tribunale collegiale di Vibo Valentia, sulla base delle richieste operate dal pm distrettuale Carlo Villani, ha sentenziato le condanna per cinque dei nove imputati di uno dei tronconi del processo “Ghost”, scattato in seguito all’omonima operazione antidroga che il 25 gennaio scorso, al culmine di un’articolata indagine condotta dalla Squadra mobile di Vibo, aveva portato – inizialmente - alla notifica di 40 ordinanze di custodia cautelare in carcere, divenute poi 45 in fase di conclusione delle indagini.
Gli imputati sono stati accusati di aver messo in piedi un’associazione finalizzata al traffico di grossi quantitativi di stupefacenti. Il sodalizio criminale – secondo gli inquirenti – avrebbe spacciato cocaina, hashish e marijuana producendo un giro d’affari valutato in 5mila euro al giorno, operando peculiarmente nel territorio delle Serre, con base operativa nel capannone sito nella zona impervia di “Felicello” a Gerocarne, adibito al confezionamento e allo smercio all’ingrosso della droga, poi spacciata al dettaglio da una rete di pusher nella provincia Vibonese, ma con diramazioni anche in quelle di Crotone, Catanzaro, Cremona e Firenze.
La sentenza ha portato a condanne pesantissime, tanto che sono state comminate pene complessive per 54 anni di carcere in capo a cinque imputati: Vincenzo Capomolla (15 anni di reclusione), Nazzareno Caglioti (10 anni), Caterina Granato (10 anni), Alfonso Namia (12 anni) e Rosaria Iennarella (7 anni). Mentre per Nicodemo Adorisio, Giuseppe De Masi, Filippo Mazzotta e Vincenzo Morano è arrivata l’assoluzione.
Sono arrivate nel pomeriggio di ieri le condanne in appello sentenziate dalla seconda sezione penale di Catanzaro, a danno dei cinque imputati accusati di traffico di stupefacenti – e non più di associazione a delinquere – che nel luglio del 2010 erano rimasti coinvolti in un’operazione della Dda di Catanzaro, coordinata dal pm Gianpaolo Boninsegna che aveva fatto luce su una produzione di marijuana, individuata in un villaggio turistico sito a Nicotera Marina.
Tra i 5 imputati anche Pasquale Siciliano di Sorianello (condannato in appello a 4 anni e 3 mesi) e Pietro Simoncini di Soriano Calabro (4 anni). Spiccano le posizioni di Giuseppe Muzzupappa (condannato in appello a 5 anni) considerato il “capo” del gruppo e che nel villaggio lavorava come guardiano e di Antonio Rugolo (4 anni e 15 giorni) che invece esercitava – anche lui nello stesso complesso turistico - l’attività di operaio. Entrambi sono residenti a Nicotera. Condannato invece a 4 anni e 9 mesi, sempre in appello, Carmine Cacciolo di Spilinga. Totalmente assolto invece un sesto imputato, Cosimo Rugolo di Nicotera, che in primo grado era stato condannato a 6 anni ed 11 mesi di reclusione.
VIBO VALENTIA - Sono accusati di fare parte di un'associazione a delinquere dedita al traffico di droga i nove imputati del processo scaturito dalla maxioperazione “Ghost” per i quali il pm della Dda di Catanzaro, Carlo Villani, ha chiesto altrettante condanne. L'inchiesta, condotta dalla Squadra Mobile di Vibo Valentia, ad inizio 2011 aveva portato alla scoperta di una «centrale di taglio e smistamento» di sostanze stupefacenti in un capannone ubicato nella zona impervia di località “Felicello” nel comune di Gerocarne. Le intercettazioni ed i pedinamenti, durati ben due anni, avevano portato all’arresto di 45 persone afferenti ad un’articolata rete di presunti spacciatori che, secondo gli inquirenti, gestiva un ingente traffico di droga “lavorata” proprio a Gerocarne e poi smistata verso altre zone d’Italia e della regione.
Di seguito le condanne richieste dal pm:
Nazzareno Caglioti 18 anni di reclusione;
Alfonso Namia 15 anni e sei mesi;
Nicodemo Adorisio 15 anni;
Giuseppe De Masi 13 anni;
Vincenzo Capomolla 12 anni e sei mesi;
Filippo Mazzotta 11 anni e sei mesi;
Caterina Granato 11 anni;
Rosaria Iennarella 10 anni;
Vincenzo Morano 6 anni e 40.000 euro.
Sempre il pm ha chiesto inoltre al tribunale collegiale la trasmissione degli atti alla procura per il teste Elisa Filardo ipotizzando il reato di calunnia.
Il pm Sara Ombra, della Dda di Reggio Calabria, ha formulato ieri la richiesta di tre ergastoli e cinquanta anni e due mesi di carcere complessivi, per i 9 imputati coinvolti nell’operazione antimafia "Confine", tutti giudicati con il rito abbreviato.
L’inchiesta scattò l’8 agosto di un anno fa, con l’intento di far luce sull'omicidio del boss Damiano Vallelunga, ucciso il 27 novembre 2009 a Riace. La condanna all’ergastolo è stata richiesta per Angelo Misiti (di Stignano), Luigi Vallelonga (di Campoli di Caulonia) e Cosimo Franzè (di Caulonia). Richieste invece pene minori per altri sei imputati: dieci anni di carcere nei confronti di Bruno Vallelonga, Domenico Ruga (entrambi di Monasterace) e Renato Comito (di Caulonia); otto anni ciascuno sono stati invece chiesti per Piero Vallelonga (di Stilo) e Vincenzo Franzè (di Caulonia); quattro anni e due mesi, infine, la richiesta per il collaboratore di giustizia Michael Panaija (di Placanica).
Tutti i Vallelonga imputati nel processo sono cugini del defunto boss di Serra San Bruno, Damiano Vallelunga, ritenuto il capo storico dei clan delle Serre. La Provincia di Reggio Calabria e i Comuni di Serra San Bruno, Stilo, Caulonia, Monasterace e Riace si sono costituiti parte civile.
Sono stati assolti con formula piena i due operai Afor, Rocco Iacopetta e Adriano Cirillo, entrambi residenti a Nardodipace nella frazione di Cassari, che erano stati imputati il 28 settembre 2012 per il reato – in concorso fra di loro - di coltivazione di sostanza stupefacente. Nel dettaglio l’accusa riguardava la messa a dimora, in un terreno ricadente nel Comune di Caulonia, in provincia di Reggio, di ben cento piante di canapa indiana con altezza compresa tra i 2,5 e i 3,5 metri.
Il giudice del Tribunale di Locri, Davide Lauro, dopo una lunga Camera di Consiglio, ha quindi accolto a pieno la tesi difensiva formulata dall’avvocato Raffaele Masciari, basata sulla estraneità dei due imputati rispetto ai fatti contestati. Il legale ha infatti evidenziato come non vi fosse alcuna traccia nel verbale d’arresto – né in tutti gli altri atti processuali – del fatto che i due operai idraulico-forestali fossero stati colti in flagranza di reato. Al momento del fermo, dopo le formalità di rito, nel settembre dell’anno scorso i due erano stati arrestati e tradotti, per due settimana circa, nella casa circondariale di Locri. All’udienza di convalida dell’1 ottobre 2012, il gip Caterina Capitò, aveva deciso la convalida dell’arresto, disponendone però l’immediata liberazione, applicando la contestuale misura dell’obbligo di dimora. In seguito il Pm era arrivato a chiedere la condanna di Iacopetta e Cirillo a 4 anni e mezzo di reclusione ciascuno e a 3.500 euro di ammenda. Il 17 dicembre scorso, infine, si è arrivati quindi alla totale assoluzione, in quanto i due operai non avrebbero commesso i fatti ascritti.
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