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Domenica, 11 Ottobre 2015 13:11

Pasquale e Filippo. E quei vent’anni che non arriveranno mai

Scritto da Sergio Pelaia
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Scriverne, anno dopo anno, diventa sempre più difficile. Ne sono passati sei. La rabbia ha ormai lasciato il posto alla mestizia, alla consapevolezza che in Calabria, nel Vibonese, un ragazzo può morire così, inghiottito da una crudeltà disumana, e i suoi assassini possono continuare a mostrare la loro faccia per strada senza che nessuno sappia, senza che nessuno immagini che hanno massacrato un bambinone innocente per chissà quale assurdo, stupido motivo.

Sempre più difficile, ogni volta, ricostruire la cronaca dell’omicidio di Pasquale Andreacchi. Ogni volta te lo vedi davanti, gli occhi di un candore insopportabile. E ogni volta due immagini si sovrappongono in una successione ripetitiva, ossessiva. Due frammenti che fanno male: un giovanotto molto alto, dall’andatura dinoccolata e incerta, che cammina su una salita che io percorro ancora oggi, ogni sera, per tornare nella mia casa calda e accogliente; un teschio umano, lucido ma pieno di ematomi, di macchie rosse di sangue, poggiato tra cartacce e rifiuti dentro un cassonetto che qualcuno, in una mattina che non dimenticherò mai, aveva trasportato nel retro del commissariato di polizia di Serra.

La cronaca di quei mesi, quando la vita di Pasquale era rimasta appesa alla morbosa fantasia di paese, oggi non serve più a nulla. L’11 ottobre 2009 era domenica, proprio come oggi, e probabilmente Pasquale quella sera era già morto. Mentre lo cercavano, mentre si lanciavano appelli, mentre ne parlava “Chi l’ha visto?”, lui era già morto. Attirato in una trappola, sequestrato, massacrato di botte, fatto inginocchiare e freddato con un colpo di pistola in mezzo agli occhi. Poi scarnificato, forse lasciato in pasto agli animali selvatici. Per finire con la testa in un cassonetto, per finire con le ossa sparse tra le foglie di castagno. 

Qualche sospetto, un movente che parla di cavalli comprati, non pagati, e poi rubati di notte, forse rivenduti a chissà chi, spariti nel nulla. Un investigatore di razza che confida, quasi subito dopo la scoperta dei resti, che se fosse per lui l’assassino sarebbe già dentro. Parole, ipotesi, sospetti, nulla di più. Indagini chiuse, archiviate, poi riaperte. Tutto è passato, in questi sei anni. Ma non l’immagine di quel Cristo affaticato, impaurito, o forse ancora fiducioso, che affronta, per l’ultima volta, quella maledetta salita.

Pasquale non ha potuto vivere i suoi vent’anni. Non ha potuto camminare sul mondo con l’entusiasmo di un adolescente e la determinazione di un adulto. Quando lo hanno ammazzato ne aveva appena compiuti 18. Già lavorava con il padre, dava sfogo alla sua più grande passione in un maneggio che oggi porta il suo nome. 

Neanche Filippo Ceravolo ha potuto vivere i suoi vent'anni. Anche lui già lavorava. Era da poco entrato nel suo diciannovesimo anno di età quando, il 25 ottobre 2012, fu ammazzato con dei colpi di fucile in testa. Pallettoni, sparati da una curva buia tra Soriano e Pizzoni, che non erano destinati a lui, che erano imbevuti nell’odio di una faida mai sopita. Anche per lui, dopo tre anni, non c’è nessun colpevole. La voce di Martino, suo papà, continua a tremare quando parla del figlio. Ma è una voce che non si spegne mai, è sostenuta dal coraggio di chi, vedendosi strappato via un pezzo di cuore, non ha più niente e nessuno da temere. Proprio come gli occhi di Maria Rosa, la giovane mamma di Pasquale, che da quella domenica di ottobre sono avvolti da un velo che copre tutto il resto del mondo, che continua a far vedere sempre e solo Pasquale.

Pasquale e Filippo. E i loro vent’anni che non arriveranno mai.