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Domenica, 13 Settembre 2015 10:54

Nessuno ha visto, nessuno ha sentito

Scritto da Salvatore Albanese
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Avrebbero dovuto essere ventiquattro, oggi, le candeline sulla torta di compleanno di Pasquale Andreacchi. Il “gigante buono” si sarebbe chinato dall’alto dei suoi quasi due metri di statura, per spegnerle tutte, soffiando forte, magari con gli occhi chiusi, magari esprimendo un desiderio. Forse un nuovo cavallo, forse la serenità, finalmente, per una famiglia non proprio agiata. Avrebbe sorriso, circondato dai fratelli e dalle sorelle, dall’affetto dei genitori. Avrebbe sorriso così come, vincendo la sana timidezza stampata sul viso semplice da eterno ragazzino, faceva sempre quando ti incontrava per strada.

Una vita strappata a tutto quello che avrebbe dovuto essere la normale esistenza di un ragazzo. Un ragazzo come tanti altri, pronto a vivere i primi amori, le serate con gli amici, le ribellioni dell’adolescenza, le fatiche e le soddisfazioni di un lavoro che per lui era prima di tutto una grande passione. Invece no, nulla di tutto questo. Perché la morte, secondo una dinamica che definire brutale è poco, gli ha spento il futuro. Oggi Pasquale avrebbe dovuto compiere il suo ventiquattresimo anno d’età. Ma a distanza di quasi sei anni dalla barbara uccisione il suo ricordo resta sfumato, affogato tra le righe di una storia dai confini contorti. Oscura e, soprattutto, irrisolta. Perché una sera di ottobre, nel 2009, Pasquale esce normalmente da casa e, come se fosse divenuto un fantasma, sparisce nel nulla. Iniziano le ricerche dei famigliari e degli amici, inizia il batticuore per una famiglia che lo riavrà solo dopo oltre due mesi e nella maniera peggiore da immaginare. Due mesi in cui nessuno ha visto e sentito nulla. In cui niente, stranamente, emerge rispetto alla sua scomparsa. Un vero e proprio mistero alimentato da tanti punti interrogativi e poche certezze. 

Poi, fra il Natale ed il Capodanno successivo, il 27 dicembre, di Pasquale vengono ritrovati i resti. Un mucchio d’ossa, sparpagliate nel fango e nell’erba bagnata, raccolte ad una ad una per terra come frutta caduta dagli alberi. Qualche giorno prima, erano stati alcuni operatori comunali a trovare sul fondo di un cassonetto dell’immondizia, un femore lunghissimo ma spezzato in due ed un teschio con un foro al centro della fronte che lascia inequivocabilmente pensare ad un colpo da arma da fuoco.

Il paese piomba in un silenzio assordante, che dapprima ha il sapore della sconfitta e del dolore, del terrore forse, ma che poi a distanza di tempo si trasforma in indifferenza e distacco. Solo due anni fa, la collettività risponde ad un’iniziativa promossa da alcune associazioni, che mira ad intitolare una via, una piazza o un luogo qualsiasi di Serra San Bruno alla memoria di Pasquale, ucciso ferocemente, poco più che diciottenne, da una mano criminale che ancora insiste a non avere un nome.

La proposta però cade nel vuoto nonostante la sottoscrizione, nel giro di pochi giorni, di quasi 600 cittadini. Si perde tra i cavilli burocratici dettati da un’amministrazione poco disposta, evidentemente, ad omaggiare in maniera esplicita un ragazzo vittima di quello che resta uno degli omicidi più efferati e crudeli in tutta Italia negli ultimi decenni. Rinvii su rinvii che hanno il sapore, manifesto, dell’omertà. Perché anche le istituzioni, allora, si dimostrano incapaci di determinare un cambio di passo, culturale in particolare, che potrebbe nascere dal gesto coraggioso, ma semplice, di onorare la memoria di un ragazzo innocente, picchiato, torturato selvaggiamente, ucciso con un colpo secco di pistola in fronte e dato in pasto agli animali selvatici. Resta il dolore di una famiglia che, passato un altro anno, si stringe attorno a se stessa e si ritrova a rimpiangerlo, circondata dal buio, dalla solitudine e dalla sofferenza. Dal ricordo logorante di un figlio perso per sempre, di un omicidio tragico rimasto impunito.